I giorni della Liberazione di Ferrara
Il racconto dei giorni che portano alla Liberazione della città di Ferrara il 24 aprile del 1945 è vissuto in prima persona dal partigiano Giorgio Franceschini, membro del Comitato provinciale clandestino di Liberazione Nazionale: ne lascia testimonianza sulle pagine dell’«Avvenire Padano» il 23 e 24 aprile del 1960.
Il 22 aprile del 1945 gli Alleati sono ormai alle porte di Ferrara, e il timore è quello di un nuovo, imminente bombardamento su una città già duramente colpita. Sul fronte opposto, invece, la Wehrmacht si mostra decisa a mantenere, a ogni costo, il controllo di Ferrara. Mentre sui muri e nelle strade appare il primo, vero volantino dell’insurrezione a firma del CLN provinciale, proseguono gli scontri tra partigiani e nazifascisti in città. È però vivo tra la popolazione il terrore di un ultimo bombardamento, soprattutto dopo le tragiche notizie che arrivano da Argenta e Portomaggiore, praticamente rase al suolo dalle operazioni aeree alleate.
Le sorti di Ferrara sono nelle mani di monsignor Ruggero Bovelli, “pastor et defensor”, già intervenuto a seguito dei tragici fatti della nota “lunga notte” del 1943: è l’azione risoluta dell’Arcivescovo a salvare “con ogni probabilità Ferrara da un massacro”, così scrive Franceschini. Nella lettera che fa pervenire a McCreery del Comando alleato, grazie a don Govoni, parroco di Cona, si legge che Ferrara è deserta: le truppe liberatrici desistono così da un ulteriore attacco aereo. Allo stesso tempo, monsignor Bovelli raggiunge anche il comando tedesco, stanziato nel Castello Estense, con la richiesta di cessare ogni opposizione. L’invasore ascolta le parole dell’Arcivescovo, e, ben conscio dell’avanzata alleata, lascia Ferrara, ritirandosi verso Nord: subirà gravi perdite prima di riuscire ad attraversare il Po. In città cala la notte, quando le fiamme illuminano il pieno centro storico: è il “rogo sinistro” che avvolge il Palazzo della Ragione. Il corrispondente del «Corriere Alleato» addita ai tedeschi la responsabilità dell’incendio – ipotesi mai verificata – e la distruzione del ponte sul Po di Volano, ultimo tentativo di rallentare l’avanzata alleata.
L’indomani, 23 aprile, i gruppi di partigiani, chi più e chi meno organizzato, vanno alla caccia dei militari tedeschi rimasti in città, rivolgendosi soprattutto contro i “franchi tiratori” nazisti. Un comunicato della 35ª Brigata Rizzieri parla di dodici partigiani caduti nell’arco della giornata: sono ore di incertezza. Il CLN si raduna nel Palazzo Arcivescovile insieme a monsignor Bovelli, mentre la popolazione si nasconde nei più disparati rifugi.
L’8ª armata inglese e un contingente indiano, provenienti da est, sono infatti alle porte della città, e all’alba del 24 aprile è pronto a varcare il Ponte di San Giorgio, nel giorno del Santo Patrono di Ferrara. I tedeschi, invece, sono in rotta verso il Grande Fiume. Franceschini e il CLN accolgono i generali alleati sullo scalone del Municipio, sventolando la bandiera italiana: alla città è annunciata la Liberazione, e la gente esce finalmente dai rifugi festante. Ferrara torna così a vivere. “Chi ha vissuto quelle ore le ricorderà per sempre”, scrive ancora Franceschini, “riappariva la speranza, al suono delle cornamuse scozzesi in Piazza Cattedrale e nel tripudio della Festa solennissima del Santo Patrono: la speranza di una nuova Italia”.
Un punto strategico per i tedeschi: Mesola
La zona in cui sorge Mesola attira i tedeschi già nel 1943: preoccupati per un eventuale sbarco alleato tra Porto Garibaldi e Volano, individuano questo luogo strategico sul Po di Goro e sulla via per Venezia. Il Delta del Grande Fiume, con il suo reticolo di canali e paludi, offre inoltre un’ottima difesa naturale contro un eventuale attacco. Non ci sono solo le valli, ma anche il Bosco (detto “Boscone”) della Mesola, un ulteriore sbarramento della natura e che diventerà, invece, il nascondiglio per i soldati inglesi.
La sede operativa dei due battaglioni nazisti di stanza a Mesola è il Castello Estense, costruito tra il 1578 e il 1583 come residenza dei signori di Ferrara per le battute di caccia nel Bosco della Mesola. È nel palazzo cinquecentesco che avvengono gli interrogatori e le torture dei partigiani e dei sospettati antifascisti imprigionati nell’ex caserma dei Carabinieri, solitamente prima di essere trasferiti nelle “fasanare” di Codigoro.
Mesola diviene tanto importante nei piani difensivi dei nazisti che qui passa parte della linea Gengis Khan, tra Bologna e Comacchio. Proprio nel territorio mesolano i tedeschi individuano lo sbarramento principale per le eventuali offensive alleate. Lungo l’antica strada Romea – tra Ravenna e Venezia – è costruito un sistema di bunker difensivi, detti furtìn in dialetto ferrarese, e realizzati con manodopera locale reclutata forzatamente dall’Organizzazione Todt. Le prime strutture sono edificate lungo la barriera naturale ubicata tra il Canal Bianco e il ramo del Po di Goro, poi quelli nelle pinete delle Motte, del Fondo e Ribaldesa, per un totale di una trentina di bunker, mai utilizzati né armati per il cambio di strategia degli Alleati, che sbarcano poi ad Anzio.
Come avviene nelle aree limitrofe, i tedeschi abbandonano Mesola con una ritirata disordinata tra il 22 e il 23 aprile del 1945. Fanno saltare i ponti sul Canal Bianco per rallentare gli Alleati ormai vicini, e si danno a una vera e propria fuga disperata attraversando il Po. Il partigiano Walter Feggi, nome di battaglia “Pietro”, dall’estate del 1944 comandante del secondo distaccamento della 35a Brigata “Bruno Rizzieri”, nonché capo del settore partigiano di Massenzatica-Monticelli, racconta quegli ultimi giorni di occupazione e la caotica rotta dei tedeschi: “Il 23 aprile un componente del mio settore mi avvertì che nei pressi di Ponte Chiaviconi, fino alla zona attraversata dalla strada Romea, si stavano ammassando molti tedeschi armati in fuga […]. A ridosso del fronte che avanzava con gli alleati che pressavano le retroguardie dell’Asse in rotta disperata, per ore e ore durante il giorno proseguì un mitragliamento continuo, esteso a tutti i territori attraversati dal basso corso del Po che frenava la ritirata tedesca. Sopra le campagne fra Ariano Ferrarese e Massenzatica, nugoli di aerei scendevano in picchiata a brevi intervalli con traiettorie incrociate per non dare tregua al nemico in fuga: cecchinavano i tedeschi lungo i fossi di scolo delle valli”.
Anche questo territorio, dove il nazifascismo ha colpito duramente negli anni dell’occupazione – su tutti si ricorda l’Eccidio della Macchinina del 28 marzo del 1944 nei pressi di Goro – è finalmente libero: il 25 aprile i partigiani della 28aBrigata Garibaldi entrano nel paese.
Codigoro: dal dramma delle “fasanare” al giorno della Liberazione
Il 22 aprile del 1945 finalmente Codigoro è libera. I nazifascisti, catturando degli ostaggi, abbandonano il paese, dopo aver fatto saltare il ponte sul Po di Volano in un vano tentativo di ostacolare l’avanzata alleata. Ed è proprio dalla darsena che si avvicina una camionetta di militari della brigata Cremona insieme agli inglesi, sventolando la bandiera italiana: gli ultimi invasori tedeschi sono messi in fuga dai colpi di mitra.
La guerra è giunta al termine, ma la felicità non può cancellare i lunghi mesi di dittatura e di repressione, simboleggiati dalle “fasanare”, le carceri di Codigoro situate a fianco del Municipio. Qui sono imprigionati i tantissimi antifascisti, che dopo l’Eccidio del Castello Estense stanno riorganizzando la lotta per la Liberazione nelle Valli, ma anche semplici sospettati: 368 persone tra il 27 novembre del 1944 – con l’inizio degli arresti di massa – e il 23 marzo del 1945 sono incarcerate nelle fasanare. In queste prigioni, il cui nome ricorda i serragli per la custodia dei fagiani, le torture sono invece tra le più atroci, soprattutto nel mese e mezzo di permanenza della squadra politica al comando di Carlo De Sanctis, fascista asservito al volere tedesco. Tra i detenuti occorre ricordare il liceale Ludovico Ticchioni di Mestre, comandante partigiano della 35a Brigata “Bruno Rizzieri”, ucciso insieme a Gino Villa nella piazza del paese, all’alba del 14 febbraio del 1945, sotto una falsa promessa di liberazione e dopo essere sopravvissuto agli interrogatori.
Il 22 aprile, dunque, l’incubo delle fasanare è giunto al termine. I nazifascisti scappano frettolosamente e disordinatamente da Codigoro e con loro trascinano alcuni ostaggi durante la fuga, dal momento che le carceri sono ormai vuote, grazie all’intervento del pretore Giovanni Zizak, nelle notti del 19 e del 20 aprile del 1945. Nel giorno della Liberazione di Codigoro, tra i prigionieri dei nazifascisti in rotta c’è anche Bruno Paolati, marito di Olga Fabbri e residente sulla strada che dal paese porta a Mezzogoro. La giovane moglie, reggendo la piccola figlia in braccio e tenendo per mano la più grande, dodicenne, prega i rapitori di liberare il marito, ma è colpita da una raffica di mitra di fronte alle due figlie e ai familiari. Il gesto eroico di Olga Fabbri sarà poi ricordato da Giancarlo Pajetta, che consegnerà alla figlia maggiore Liliana Paolati una medaglia in onore dalla madre durante una celebrazione nel teatro di Codigoro. La vicenda rimarrà anche nella cinematografia: il gesto di Olga ispirerà il personaggio di Pina (Anna Magnani), uccisa mentre insegue il marito imprigionato su un camion dai tedeschi, nel film Roma città aperta di Roberto Rossellini (1945).
Prima della fuga e dell’arrivo degli Alleati, i tedeschi hanno anche posizionato delle cariche esplosive intorno al luogo storico dell’Abbazia di Pomposa, risalente al IX secolo e già adibita con bunker, lungo la strada Romea. Durante la notte è il parroco di Codigoro, don Vincenzo Turri, a scollegare i cavi elettrici. Sono così evitati la rovinosa distruzione dell’antico complesso benedettino e ulteriori danni al patrimonio storico, artistico e architettonico del Ferrarese.
Dalla Linea Gotica a Ferrara: l’avanzata alleata a Portomaggiore
Il giorno dopo il bombardamento su Argenta, l’offensiva degli Alleati verso il Po passa inevitabilmente per la vicina cittadina di Portomaggiore. A cavallo della Linea Gotica, durante l’inverno tra il 1944 e il 1945 la Resistenza locale è ben organizzata e capillare nelle azioni contro i tedeschi e i repubblichini: e ancora oggi il territorio portuense conserva le tracce della memoria di quei mesi tragici di lotta contro il nazifascismo, in attesa dell’avanzata alleata proveniente da Sud.
Gli attacchi aerei su Portomaggiore iniziano già la mattina del 13 luglio del 1944, ma è il devastante bombardamento notturno di domenica 13 aprile del 1945 a lasciare le ferite più sanguinose nella comunità portuense. Alle ore ventuno esatte prende il via la manovra alleata: il cielo si illumina più del solito, ed è il centro di Portomaggiore il bersaglio delle incursioni aree, che si susseguono a ondate per ventuno minuti con l’impiego di circa settecento bombardieri. Il bilancio è tragico e pesantissimo: oltre cinquecento vittime. Il centro storico è quasi totalmente distrutto, si salvano solamente il Municipio e qualche palazzo settecentesco.
L’offensiva alleata, però, non si arresta in quella sera. Il 17 aprile un nuovo attacco provoca danni altrettanto gravi, sia in termini di distruzione sia di vittime sotto le macerie, che salgono complessivamente a oltre un migliaio. Gran parte della storia della cittadina è cancellata da questi bombardamenti.
Nei giorni successivi al 13 aprile, ulteriori incursioni si abbattono sul territorio circostante a Portomaggiore. Le frazioni di Maiero, Quartiere e Portoverrara sono quasi rase al suolo; mentre il 18 aprile seguente, a Ripapersico, una bomba centra il borgo Ca’ del Gallo: muoiono decine di persone, che lì si riparavano in un rifugio antiaereo.
La sera del 19 aprile i primi Alleati dell’Ottava armata guidata da McCreey entrano in un paese devastato e distrutto: molte persone si trovano ancora sotto le macerie o nei rifugi. La mattina del 20 aprile, invece, fanno il loro ingresso le truppe, i mezzi pesanti e i partigiani che dal 1943 stanno lottando per la liberazione del territorio. Le ultime, deboli resistenze tedesche sono presto debellate, e si può festeggiare tra le macerie con grande commozione, mista a rabbia per il pesante dazio pagato.
Il luogo divenuto simbolo di quei tragici giorni è il podere “La Gnola”, che si trova alla periferia di Portomaggiore. Dopo il bombardamento del 13 aprile, circa centotrenta civili in fuga dai centri abitati per paura di un nuovo attacco trovano riparo nel podere. La sua posizione isolata fa però anche al caso dei tedeschi, che vi collocano una stazione radio. Gli sfollati sono rinchiusi da quegli ultimi invasori nelle stalle, per evitare intralci. Il 20 aprile, mentre le truppe liberatrici entrano a Portomaggiore, due aerei alleati di ritorno da una missione sul Po sorvolano la zona: uno dei due velivoli prosegue verso la base, l’altro, con una brusca virata, sgancia una bomba sull’edificio; un secondo ordigno colpisce gli sfollati che si trovano nel cortile del casale distrutto: sono una cinquantina le vittime di quella giornata.
Una strage prima della Liberazione: i X Martiri di Porotto
Tra il 24 marzo e il 21 aprile del 1945, poco prima della Liberazione, dieci giovani delle frazioni limitrofe al capoluogo di Porotto e Fondo Reno sono trucidati dai nazifascisti, in una vicenda che lascia ancora oggi tanti punti interrogativi, ma riveste un momento molto importante della storia della Resistenza nel Ferrarese.
Nella casa di Porotto dei coniugi Bruttomesso, il 24 marzo del 1945, è in corso un incontro clandestino operativo della Federazione del Partito Comunista ferrarese, con lo scopo di intensificare l’azione bellica delle Squadre di azione Patriottica. Sono presenti Giorgio Malaguti, Luciano Gualandi, Ugo Costa, Giuseppe Piva, Spero Ghedini. A causa di una delazione, durante la perquisizione della casa dove sono rifugiati, alcuni partigiani fuggono attraverso i campi, ma altri vengono individuati durante il controllo al piano superiore. I militi della Guardia Nazionale Repubblicana riescono ad arrestare Costa, già capo di Stato Maggiore del Comando Gruppo Brigate Ferrara, e durante l’inseguimento colpiscono a morte Giorgio Malaguti (di Galliera, detto il “Biondino”), mentre è arrestato anche Luciano Gualandi. Spero Ghedini e Giuseppe Piva riescono invece a fuggire. Il paese di Porotto è rastrellato dai nazifascisti, alla ricerca dei fuggitivi, ma senza esito. Il 25 marzo Costa e Gualandi, già torturati, sono condotti nel luogo della cattura e, senza alcun giudizio, fucilati da un plotone.
A pochissimi giorni dalla Liberazione la lista dei trucidati si allunga. Anche se la vicenda lascia ancora punti da chiarire, ci si può servire della ricostruzione di Antonella Guarnieri basata sulla testimonianza di Albertino Rossi nel libro Fermati a pensare prima di dire o di fare (2004): egli è il nipote di una delle vittime di quel 21 aprile del 1945, Quinto. Questi dà rifugio a tre uomini, che verso la fine di marzo si presentano come partigiani: sono nascosti in una buca profonda scavata in un campo di canapa. Il 20 aprile tre persone, insieme a soldati tedeschi, chiedono di Quinto, che nel frattempo si è rifugiato nella buca, e maltrattano la famiglia: Alla fine, guidati dai fascisti, i nazisti trovano Quinto e lo riportano a casa: ma il giorno dopo, il 21 aprile, Quinto non c’è più. È riverso per la strada, a un centinaio di metri dalla sua abitazione, insieme ad altri cinque cadaveri, tutti legati per le mani, fucilati alla schiena e poi alla testa: sono Egidio Artioli, Cesare Artioli, Renzo Artioli, Dino Manfredini, Giancarlo Massarenti, mentre Tonino Pivelli è ucciso poco lontano, in via Catena, nella campagna della famiglia Veneziani. Sono tutti giovani tra i 17 e i 33 anni, di ideologie politiche diverse. La causa di questa frettolosa rappresaglia, con gli Alleati che nel frattempo avanzano velocemente, sarebbe da ricercare nell’aiuto fornito a quei tre partigiani, che partigiani non sono, bensì “tre fascisti venuti da fuori”, così scrive Albertino Rossi.
Non si sa ancora con certezza perché siano stati catturati, in quel giorno, proprio loro, in modo così brutale. L’ipotesi è che ci fosse una lista di un centinaio di antifascisti da eliminare nella rapida e disordinata ritirata tedesca dal Ferrarese. Gli studi, tuttavia, avanzano per fare chiarezza su un episodio chiave della storia di questo territorio.
La memoria, però, non è mai andata persa, soprattutto all’interno della comunità delle due frazioni. Il ricordo dei dieci martiri è perpetuato nei tre monumenti commemorativi e nelle targhe di Fondo Reno e Porotto.
Antonella Guarnieri, scheda dell’eccidio di Porotto. Atlante delle stragi nazifasciste
Un atto eroico: le donne di Bondeno invadono il Municipio
Domenica 18 febbraio 1945 è una giornata storica nella lotta per la liberazione del Ferrarese. Protagoniste sono le donne di Bondeno, che scendono in piazza e invadono il Municipio del paese, bruciando i documenti e i registri di leva di capitale importanza per i rastrellamenti di quei giorni.
L’azione eroica, dai toni quasi epici, di aperta protesta contro il fascismo non è estemporanea, ma è organizzata minuziosamente dal Comitato di Liberazione Nazionale provinciale e da quello locale, che a Bondeno possono contare su una lotta di Resistenza organizzata e su uomini e donne ben formati. Già nel 1944, infatti, le donne di Bondeno hanno invaso il Municipio; poi, il 5 febbraio del 1945, un volantino della Federazione del Partito comunista ferrarese sprona le donne a unirsi ai Gruppi di difesa della donna e a manifestare contro gli assassini nazifascisti, “esecutori e responsabili di tante infami sofferenze”.
Il 18 febbraio i fascisti non si aspettano ulteriori disordini. Le donne e alcuni giovani passano all’azione. Dalle frazioni bondenesi di Montemerlo, Ponte di Spagna, Scortichino, Gavello, San Biagio e Ospitale e si danno appuntamento davanti al Municipio. Racconta quella giornata storica l’edizione straordinaria de La Nuova Scintilla del 19 febbraio, l’organo clandestino della Federazione comunista ferrarese: “Le donne di Bondeno scendono in piazza, occupano il Comune, esponendo la bandiera nazionale, tengono comizi protestando contro la fame, il freddo ed il terrore dei nazi-fascisti”, così recita il sottotitolo in prima pagina. Le donne del paese, insieme ai giovani, scendono dunque la domenica mattina in piazza per protestare contro il nemico: tedeschi e fascisti privano le famiglie, allo stremo, di derrate alimentari e capi di bestiame, facendo loro soffrire la fame. A ciò si aggiungono i rastrellamenti della settimana precedente, a cui seguono le torture.
La cronaca si intreccia con le parole di Giuseppe Ferrari (“Bruno”), che ha il compito di riferire nei dettagli la preparazione e lo svolgimento della giornata al Partito comunista: c’è la “compagna Mora in testa” al gruppo di donne, davanti al comune, ed è lei a trascinare le altre all’interno per esporre il tricolore gridando “Viva l’Italia”, inneggiando alla lotta di liberazione e chiedendo la pace. Nel frattempo, i partigiani proteggono l’area.
Dopo un primo comizio sulla piazza e un secondo dal balcone, al grido di “basta con i rastrellamenti, rivogliamo liberi i nostri uomini!”, dalle finestre iniziano a volare i libri, il mobilio e i registri dell’amministrazione fascista. “Lorde figure di briganti neri sono entrate in campo sparando con i loro mitra contro delle donne inermi”, prosegue il giornale, “ma queste, per niente impaurite, hanno insultato questi figuri, strappando l’approvazione della popolazione”, che prima si accalca e poi sostiene l’azione; “e li hanno costretti a ritirarsi sotto il peso della loro schifosa vergogna”.
Alcune donne sono picchiate, altre ancora rimangono a terra ferite: Linda Marchetti, per i colpi subiti, sarà ricoverata in un ospedale psichiatrico, e Irene Bergamini sarà dichiarata invalida di guerra. Le donne arrestate, invece, sono liberate grazie allo scambio con il podestà Gulinelli, rapito dai partigiani. Il prezzo per Bondeno è caro: l’autorità statale commina una multa collettiva di 500 mila lire all’intera comunità, per aver permesso che si svolgesse “una manifestazione sovversiva”, con “gruppi di donne delle frazioni, spinte innanzi da elementi vili che agiscono nell’ombra al soldo straniero”.
La Resistenza a Comacchio: Edgardo Fogli, un pericoloso sovversivo e un eroe partigiano
Le Valli di Comacchio rappresentano un luogo di cruciale importanza nelle vicende della Seconda guerra mondiale, tanto per i tedeschi quanto per la lotta di Resistenza nel Ferrarese. In un paesaggio che sembra fuori dal tempo, divenuto poi protagonista di romanzi e film, si sviluppano le vicende eroiche di partigiani come Vincenzino Folegatti, e le storie degli “uomini della valle”, i “partigiani in barca”, che dai casoni delle valli, sotto la guida di barcaioli esperti, imbastiscono la loro guerra al nazifascismo in un territorio ostile per chi non lo conosce, fatto di acqua e terra. Tanto che Comacchio, di forte tradizione garibaldina, non trova mai un’ampia base di sostegno al fascismo locale, ed è la prima città liberata, il 21 aprile del 1945, da soli partigiani a sostegno dell’avanzata alleata.
Uno di questi, il più importante, è Edgardo Fogli, nome di battaglia “Sentinella”. Già finanziare e poi militante nell’organizzazione clandestina comunista ferrarese, espatria prima in Francia e a Mosca, infine ritorna a Parigi. Rientrato in Italia per organizzare la lotta al fascismo, dopo l’8 settembre del 1943 egli è già attivo nelle Valli di Comacchio, tra i partigiani che poi formeranno la 35a Brigata Garibaldi. Sotto il suo comando, i ribelli riescono a ostacolare i traghetti di rifornimento ai nazifascisti: Fogli, già noto alle forze di pubblica sicurezza dalla fine degli anni Venti e fermato diverse volte per le azioni di propaganda contro il regime, diviene ben presto, così, uno dei maggiori ricercati nel Ferrarese. In seguito a una soffiata è arrestato nella notte tra il 18 e il 19 gennaio del 1945, quando il quartiere del Seminario di Comacchio e la casa di Fogli in via Crispi sono circondate dalle brigate nere: nonostante gli interrogatori e le torture egli non proferisce parola.
All’alba del 29 gennaio seguente, Edgardo Fogli è fucilato, per ordine del Comando tedesco, da un plotone fascista, insieme ai propagandisti antifascisti Giovanni Farinelli, Giuseppe Ghirardelli e Vittorio Bulgarelli; con loro perde la vita anche il civile Filippo Luciani. La caserma in cui è compiuta la strage diviene il simbolo della Resistenza comacchiese, e oggi vi si trova il Parco della Resistenza, in Corso Garibaldi: sono qui ricordati i centoquindici militari comacchiesi caduti durante la Seconda guerra mondiale, i partigiani e gli appartenenti alla Divisione Aqui, morti a Cefalonia l’8 settembre 1943.
Sarà il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nel 1968 a conferire a Edgardo Fogli, per le sue azioni, la medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione: “Valoroso combattente partigiano, partecipava tra i primi al movimento di resistenza rivelando alte doti di combattente, di organizzatore e di trascinatore. Con il suo battaglione partecipava alle imprese più ardue nella difficile e infida zona delle valli, distruggendo i traghetti avversari e provocando gravi perdite in uomini e materiali. Attivamente ricercato veniva infine catturato e nonostante fosse sottoposto a feroci sevizie, non una parola usciva dalle sue labbra che potesse nuocere alla Resistenza, finché il nemico, inferocito per tanta splendida forza d’animo, barbaramente lo trucidava. Nobilissimo esempio di adamantina fierezza e di ardente amor di Patria”.
La lotta di Resistenza nel Basso ferrarese e la violenta rappresaglia fascista
L’azione partigiana nella frazione di Berra del 29 novembre del 1944 è uno degli episodi che scatena una violenta rappresaglia fascista nel Basso ferrarese. Il «Corriere Padano» di domenica 10 dicembre del 1944 racconta faziosamente i particolari dell’episodio, che l’organo di stampa fascista definisce un “vile attentato”. Verso e 18:30 del 29 novembre, un ordigno collocato sulla finestra al lato destro della porta d’ingresso del distaccamento della Guardia Nazionale Repubblicana di Berra esplode, mentre ufficiali e militi fascisti sono raccolti nella sala del rancio per il pasto serale. Nel momento dello scoppio, rimangono uccisi il comandante del distaccamento tenente Stelio Buzzoni, il vicebrigadiere Natale Righetti e il milite Antonio Grassi. Sono, inoltre, feriti in maniera grave altri quattro fascisti, di cui un ufficiale, mentre altri riportano leggermente lesi. Il giorno dopo, 30 novembre, a causa delle ferite, muore all’ospedale di Copparo il brigadiere Alberto Luciani. “L’autorità ha operato il fermo di diverse persone sospette e si sta ora procedendo attivamente alle relative indagini”, così conclude il giornale.
Nella vicina Ariano ferrarese, già nel tardo pomeriggio del precedente sabato 11 novembre, sono uccisi i fratelli squadristi Ireo e Raoul Paviani: abitanti nella tenuta Rambaldina, iscritti al Partito Fascista Repubblicano e appartenenti alla 24ª Brigata Nera, sono tratti fuori di casa da una ventina di partigiani, alcuni vestiti da guardie repubblicane, altri da coloni, che hanno l’intento di disarmarli. Si scatena ben presto uno scontro a fuoco in cui hanno la peggio i fratelli Paviani.
Questi due episodi ravvicinati scatenano la violenta rappresaglia fascista nel Basso ferrarese, a opera delle Brigate Nere sotto il comando di Ugo Jannuzzi e Carlo De Sanctis. Nelle notti del 29 e 30 novembre sono arrestate cinquanta persone: i prigionieri, oltre trecento nel mese di dicembre e un altro centinaio in gennaio, sono trascinati nelle carceri di Copparo e nelle “fasanare” di Codigoro.
Lo stesso 29 novembre del 1944, a causa delle pesanti torture subite, muore Renato Scalambra in una vasca nella casa del fascio di Codigoro: è ritenuto il capo dei partigiani di Jolanda di Savoia, e durante le sevizie non rivela nulla. Il 3 dicembre del 1944 un plotone di esecuzione fascista massacra altri quattro partigiani in una retata collegata ai fatti della caserma di Berra. Trovati in possesso di armi Jaures Finotti, Noradino Galli, Emilio Frenide Mingozzi, tutti berresi, e Severino Tagliatti di Formignana sono caricati su un camion. I quattro partigiani sono poi condotti al cimitero di Berra e giustiziati presso il muretto di cinta: è vano il tentativo di fuga di Tagliatti e Finotti.
La furia vendicativa fascista non si ferma qui. Il 30 dicembre del 1944 Ottorino Bonaccorsi, Gino Castellani, Cimbro Contrastini, Romeo Grandi e Angelo Previati, catturati durante i rastrellamenti, sono giustiziati da un plotone fascista presso il muretto del cimitero di Codigoro. La repressione culmina il 14 febbraio del 1945: i partigiani Mario Bonamico (“Compagno S”) di Serravalle, Olao Pivari (“Gatto”) di Formignana e Laerte Bonaccorsi (“Fulmine”) del gruppo partigiano di Jolanda di Savoia, dopo crudeli interrogatori e torture, confessano di aver sparato nello scontro con i fratelli Paviani: sono fucilati ad Ariano ferrarese nello stesso giorno dell’assassinio di Ludovico Ticchioni e Gino Villa a Codigoro.
Una strage nazista: l’eccidio del Caffè del Doro del 1944
Un cippo infisso nel marciapiede della strada che porta in Veneto, non lontano dal letto del fiume Po, di fronte a quello che ora è un grande bar (un tempo “caffè”), ricorda un eccidio che ha luogo nella primissima periferia di Ferrara: qui incontrano la morte sette uomini, arrestati dietro l’ordine di Carlo De Sanctis, capo dell’ufficio politico della Questura dal 1944.
Arrestati tra il 7 e il 26 ottobre 1944 per ordine dello stesso De Sanctis, sette uomini sono portati nella “camera di sicurezza” del Castello estense, quindi trasferiti nelle carceri di via Piangipane, dove subiscono interrogatori e pesanti torture, infine sono caricati su un furgone che li porta nei pressi del Caffè del Doro: qui sono scaricati.
È l’alba del 17 novembre del 1944 quando i sette sono fatti scendere dal furgone in quella che oggi è via Padova, per trovare la morte come dissidenti del regime, con un colpo alla nuca sparato dalle SS agli ordini del maresciallo Gustav Pustowka.
I sette trucidati sono di diversa estrazione sociale: Mario Agni, nato a Bondeno il 30 marzo 1919, milite nella Guardia Nazionale Repubblicana; Mario Arnoldo Azzi – Ferrara, 4 settembre 1919 –, medico e commissario politico dei GAP ferraresi, membro del Comitato di Liberazione Nazionale di Ferrara; Giuseppe Franceschini – Ostellato, 23 gennaio 1911 –, commerciante; Gigi Medini – Ferrara, 30 giugno 1915 – medico chirurgo all’ospedale Sant’Anna di Ferrara; Michele Pistani – Ferrara, 29 novembre 1896 – ragioniere presso il Comune di Ferrara; Alberto Savonuzzi – Ferrara, 25 maggio 1914 – avvocato; Antenore Soffritti – Ferrara, 19 dicembre 1912 – in servizio nella Guardia Nazionale.
A fianco del nome dei sette uccisi, nel registro del carcere compare la scritta: “deportato in Germania”. Non figura nel gruppo dei condannati il giornalista e storico antifascista Carlo Zaghi: il suo nome viene in fretta depennato a seguito dell’intervento del prefetto di Ferrara, che ne ordina il trasferimento a Padova. Nel 1992 lo stessi Azzi scrive: “Con l’eccidio di Caffè del Doro si cambia tattica. I detenuti vengono affidati dalla Questura al braccio secolare della Germania nazista: cioè le SS, abituate da sempre ad andare per le spicce e a considerare eccessivi gli scrupoli giuridici formali e burocratici delle pubbliche autorità fasciste”.
Nell’agosto del 1945 si rintraccia l’autista che ha accompagnato al Doro il gruppo dei condannati, e finalmente si possono organizzare le esequie; la cerimonia si svolge il 29 agosto. Il successivo 2 ottobre 1945 inizia il processo contro chi ha ordinato e chi ha eseguito il massacro, davanti alla Corte d’Assise straordinaria di Ferrara. I capi di imputazione di De Sanctis sono numerosi, tra cui 23 omicidi, 300 persone torturate e molte altre ridotte in schiavitù, oltre ai ripetuti contatti con le SS, solo per citarne alcuni. Il Pubblico Ministero Antonio Buono nella sua requisitoria, oltre a sottolineare la smania delle torture e a rifiutarne la perizia psichiatrica, taccia gli imputati di «astuzia raffinata». Antonio Buono chiede e ottiene per De Sanctis e per quattro collaboratori alla strage (Domenico Apolloni, Mario Balugani, Luigi d’Ercole, Giulio Valli) la condanna alla pena capitale, da eseguire il 4 ottobre 1945. La Cassazione, invece, annulla la sentenza il 12 febbraio 1946; in seguito, un’amnistia annulla la pena.
Il clima del terrore: la rappresaglia nazifascista di Filo
La ricostruzione dei tragici fatti che tra il 7 e l’8 settembre del 1944 sconvolgono la comunità di Filo, frazione a cavallo tra Argenta (Ferrara) e Alfonsine (Ravenna), è affidata alla preziosa voce delle testimonianze, tra cui quella di Libero Ricci Maccarini: membro del Comitato di Liberazione Nazionale del luogo, ricorda l’accaduto nelle sue memorie, intitolate Dal Palazzone (1983).
Tutto inizia nella serata di giovedì 7 settembre. Un gruppo di tedeschi si intrattiene nella residenza dei Tamba, forse perché a conoscenza di una visita dei partigiani – almeno così rispondono alla padrona di casa e all’inserviente –, di un incontro tra Antonio Tamba e i partigiani, a cui il movimento di Resistenza aveva chiesto sostegno finanziario. Proprio nei pressi dell’abitazione scoppia uno scontro tra i nazisti e i partigiani: nel trambusto della sparatoria, racconta Ricci Maccarini, la paura più grande per i civili è che sia rimasto ucciso un tedesco. È quello che avviene.
La rappresaglia degli invasori è immediata, e inizia il rastrellamento, casa per casa e con posti di blocco. I tedeschi occupano immediatamente l’osteria del paese – dove, in una stanza sovrapposta, si è da poco conclusa una riunione del Cln: il posto è sicuro perché frequentato anche da nazisti e fascisti. Sotto la minaccia dei fucili tedeschi, e già ferito a un piede, l’oste Enrico Nuvoli è costretto a rivelare i nomi degli abituali avventori: alcuni di loro sono notoriamente compromessi con il fascismo.
All’interno dell’osteria sono trascinate le persone fermate: quattro minorenni sono rilasciati, mentre i restanti ventuno catturati sono trasportati nell’edificio che ospita le scuole di Argenta. La scelta dei dieci condannati a morte è affidata dal Comando tedesco a tre gerarchi fascisti, il cosiddetto “Triumvirato della morte”: tra questi vi è anche Enrico Dalla Fina, segretario del fascio locale, da sempre sostenitore dello squadrismo e crudele esecutore, che nella zona ha instaurato un vero e proprio clima di terrore tra la popolazione.
I gerarchi segnano in rosso, sulla lista, i nominativi dei giustiziati. Circa alle ore sedici di venerdì 8 settembre, il camion con i ventuno prigionieri parte dalle scuole di Argenta in direzione di Filo. Si ferma sul Ponte Bastia: sull’argine sinistro del Reno, a lato della Statale Adriatica, i primi cinque prigionieri sono uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Sono Casimiro Beppino Andalò, Alfonso Bellettini, Alfredo Bolognesi, Antonio Coatti, Felice Diani. I loro corpi devono essere un monito per i passanti, fin quando le autorità concedono ai familiari di rimuovere le salme.
Il camion, con i sedici prigionieri restanti, prosegue sulla sua strada, per terminare la rappresaglia al crocevia di Filo. Con la stessa modalità del colpo alla nuca sono uccisi Luigi Matulli, l’oste Enrico Nuvoli, Amerigo Quattrini. Paolo Matulli, invece, riesce a convincere i tedeschi di essere uno sfollato di Faenza: è liberato, e al suo posto è condannato Arturo Soatti: poco importa, per i nazisti, che questi sia iscritto alla Rsi. Per due volte il diciottenne Giorgio Marconi, il più giovane, riesce a schivare, con il veloce scarto della testa, le pallottole: è afferrato per i capelli e giustiziato con un colpo alla bocca.