La Battaglia di Purocielo

Nell’autunno 1944, mentre sulla pianura ravennate operava la 28° Brigata GAP Garibaldi “Mario Gordini” sulle colline del faentino si concentrava la 36° Brigata “Alessandro Bianconcini” composta da quattro robusti battaglioni attivi nelle alte vallate del Senio e del Lamone. I due percorsi, solcati da importanti vie di valico con la Toscana, erano stati oggetto di numerose azioni partigiane nel corso dell’estate, quando vi transitavano i convogli tedeschi destinati a rifornire la Linea Gotica.

Ma in settembre, con la prospettiva di un’avanzata alleata verso la pianura, l’eccitazione per un’imminente liberazione aveva spinto il CUMER bolognese a sollecitare le formazioni partigiane di montagna affinchè scendessero a valle per precedere l’arrivo alleato nelle città.

Per tale motivo alla 36° Brigata – che si era spinta fino a 7 km dalla via Emilia - fu richiesto di indirizzare il I Battaglione verso Bologna, il II su Faenza e il III su Imola, lasciando in postazione il IV nella mediana Valle del Sintria. Era questo lo spazio intermedio tra i due fiumi principali, marginale e scarsamente popolato, che poteva nascondere per qualche tempo circa settecento partigiani presso le rare case coloniche di quella povera montagna per lo più brulla.

Ai primi di ottobre però, con l’arretramento delle linee tedesche e l’incertezza degli Alleati che non sfruttarono la conquista di Monte Battaglia, il contingente partigiano si trovò a far fronte con mezzi inadeguati ad una decisa controffensiva tedesca, proprio in quella valle del Sintria, divenuta ora meno favorevole. Non si riusciva più a procurarsi armi e munizioni con improvvisi agguati, il tempo inclemente con piogge continue e freddo incalzante sorprendeva i partigiani privi di un adeguato abbigliamento, le famiglie contadine non avevano molto cibo da offrire.

Se precedentemente il fronte nemico era affidato alla logora 715° Divisione, ora l’arrivo in linea della fresca 305° Divisione consentiva ai tedeschi di portare attacchi in profondità tra le vallate che ospitavano i partigiani. La diversa avanzata degli inglesi fino a Monte Cece da una parte e dell’8° Divisione indiana fino a Marradi, creava un pericoloso cuneo al centro, dove si vennero a trovare indifesi i battaglioni partigiani.

Fu allora che il comandante Luigi Tinti (Bob)prese la decisione di far arretrare i propri uomini verso le alture toscane, con l’intento di aprirsi un varco alle spalle e raggiungere gli Alleati in Toscana, a poche ore di marcia. Il piano, condiviso da tutte le 11 compagnie, prevedeva di raggiungere Fornazzano e di consegnare agli Alleati un valico libero, presentandosi quindi come utili partner.

La manovra ebbe inizio la mattina del 10 ottobre con un lungo scontro a fuoco contro i tedeschi, seguita da una breve pausa pomeridiana che consentì una miglior distribuzione delle compagnie presso Cà di Malanca, Cà di Gostino, Santa Maria in Purocielo, Cà di Piano di Sopra e Monte Colombo. Furono questi luoghi, segnati da epici scontri e da numerosi caduti - ben 57 nei giorni dal 10 al 12 ottobre - a pagare il prezzo della netta superiorità nemica, che il 13 infierì anche su tutti i feriti e sul personale medico lasciato nell’infermeria creata alla Chiesa di Cavina. Solo la mattina del 16 ottobre, dopo rischiose marce, i rimanenti 600 uomini della Brigata raggiunsero le linee alleate e furono inviati a Firenze, senza alcuna riconoscenza.


Una radio alleata fra i partigiani

Nella notte tra il 17 e il 18 settembre una missione di tre membri del Reparto NP (Nuotatori Paracadutisti) del Reggimento San Marco al servizio dell’OSS statunitense sbarcò sulla costa a nord di Porto Corsini, a sud delle Valli di Comacchio.

Il Reparto NP era stato un ristretto gruppo speciale della Regia Marina, specializzato in incursioni dietro le linee nemiche britanniche in nord Africa. Dopo l’8 settembre ’43 il Reparto si divise in due: chi scelse la X Mas della Repubblica Sociale e chi invece collaborò con Regno del Sud. Questi ultimi uomini vennero inquadrati e ri-addestrati dall’OSS americano e operarono sul versante adriatico fino alla Liberazione con motosiluranti e MAS. Venivano inviati oltre le linee tedesche per sabotaggi, raccolta di informazioni oltre che per contattare e appoggiare le formazioni partigiane.

La particolarità della situazione fece sì che questa unità americana dell’OSS fosse affidata a Richard M. Kelly e Alphonse Thiele e aggregata all’VIII Armata britannica operando con marinai italiani. Una miscela che diede ottimi risultati.

Il gruppo, sbarcato dalla motovedetta 56 (nel dopoguerra 472, donata alla città di Ravenna negli anni ‘70) era composta dal capo-missione Ten. Angelo Garrone, dal Sottocapo RT Giuseppe Montanino e dal marò Antonio Maletto. Portava il nome in codice “Radio Bionda”. Tra i suoi compiti originari quello di entrare in contatto coi partigiani della zona – di cui fino a quel momento poco si sapeva – non era prioritario. Prima veniva la raccolta di informazioni sull’entità e la dislocazione delle forze tedesche, sullo stato delle difese, sui rifornimenti tedeschi via terra e nel porto ravennate, ma anche in aree più ampie, fino al forlivese.

Dopo i primi contatti con partigiani locali iniziò l’invio di messaggi alla stazione di controllo di Viserba. Alla fine di settembre, causa il pericolo di un rastrellamento tedesco, gli NP si trasferirono «in un accampamento di partigiani nascosto in un luogo sicuro»: era l’isola degli Spinaroni, base del Distaccamento partigiano “Terzo Lori” da poco insediatosi in quella Pialassa.

L’isola aveva una collocazione ottimale, vicina al porto, non distante dalle principali vie di comunicazione e dalla città, ancora presidiata dai tedeschi. Ciò consentì un contatto continuativo tra alleati e partigiani, contribuendo non poco al coordinamento delle successive operazioni, oltre alla preziosa raccolta di informazioni. Il marò Maletto per tre volte rientrò al Comando alleato su barche fornite dai pescatori locali. Il più importante di questi trasferimenti avvenne tra il 19 e il 24 novembre: a Bulow venne richiesto di recarsi al Comando del 1° Corpo canadese per una reciproca conoscenza e per accordi sui piani che potessero portare senza troppi rischi gli Alleati a conquistare Ravenna. Al ritorno fu aggregato come Ufficiale di collegamento il Magg. Healy, che svolse una funzione importante prima e durante la battaglia che liberò Ravenna. Il 5 dicembre venne chiesto alla missione Bionda un ulteriore compito: spostarsi a nord, nelle valli di Comacchio per continuare là il raccordo coi partigiani. Ma il giorno 7 la radio rispose: «Impossibile raggiungere le valli. Siamo isolati. Domani passiamo le linee.»

In 81 giorni avevano trasmesso 339 messaggi radio e ricevuti quasi altrettanti.

Radio Bionda fu considerata un esempio prezioso per tutti i comandi alleati sulla Linea Gotica in vista dell’offensiva finale dell’aprile 1945.


La distruzione di Casa Baffè in via Martello, tratta dal volume E. Filangeri, M. Montanari, “Il fuoco e la rugiada, Grafiche Galeati, Imola, 1994.

La strage delle famiglie Baffè e Foletti di Massa Lombarda

All’inizio degli anni ’30 la zona di Massa Lombarda ospitò la Federazione provinciale del PCI, numerose riunioni clandestine e un centro stampa. Giuseppe (Pippo) Baffè era il segretario della sezione locale che era stato condannato prima nel 1928, poi nel 1939 rispettivamente a tre e cinque anni di carcere per “appartenenza comunista e propaganda sovversiva”. Tutta la sua numerosa famiglia, fratelli e figli condividevano la sua militanza ed erano perciò noti in paese per il loro impegno antifascista. Nell’ultimo anno di guerra si erano molto esposti per l’appoggio e il ricovero dato spesso ai partigiani.

Così, quando la mattina del 17 ottobre 1944 una pattuglia tedesca casualmente entrò in conflitto a fuoco con una squadra di partigiani sul podere dei fratelli Baffè, provocando una vittima da una parte e dall’altra, i tedeschi decisero per un’ampia rappresaglia in quella zona insidiosa e le Camicie Nere del posto non ebbero dubbi nell’indicare il caseggiato da colpire.

Intorno alle 6 di mattina l’abitazione dei Baffè fu circondata da una pattuglia tedesca affiancata da cinque brigatisti che entrarono in casa con la forza; poi tutti i maschi furono messi al muro insieme a due sfollati che avevano trovavano riparo provvisorio nel caseggiato, un giovane garzone e un adolescente “tripolino” adottato dai Baffè. Le otto donne e due bambine presenti in casa e tirate giù dal letto furono separate e rinchiuse in cucina, mentre i tedeschi legavano gli uomini e li caricavano sui camion con cui portarli in caserma a Massa Lombarda per essere interrogati. Intorno alle ore 10 riapparvero i sei brigatisti: Mario Reiner il loro comandante si fece consegnare dai vicini un cartone e un pennello con della vernice per scrivere in italiano e in tedesco “Qui abitava una famiglia di partigiani, assassini dei tedeschi e dei fascisti”. Lo affigge poi sul cancello all’ingresso della casa, mentre il camion con gli uomini, visibilmente bastonati, sta rientrando sul cortile. Mentre i fascisti completano il saccheggio di masserizie, viveri e biancheria ai due ragazzi più giovani viene imposto di scavare buche in prossimità dei muri portanti della casa per collocarvi alcune cariche esplosive.

Dopo un ultimatum per chiedere informazioni su altri partigiani nascosti in zona, rimasto senza risposte, cominciò la fucilazione dei dieci componenti della famiglia Baffè, comprese tre ragazze di 24, 25 e 28 anni accusate di fare le staffette e di dare da mangiare ai partigiani. Insieme a loro furono trucidati due braccianti di 19 e 60 anni che stavano lavorando in quei campi, i due sfollati, due garzoni e un civile, capitato casualmente sul posto per l’acquisto di vino. In tutto 22 persone. Poi furono fatte brillare le cariche e distrutta la casa. Altre donne presenti furono considerate estranee e malamente allontanate. Verso le ore 13 il massacro sembrava concluso, ma la rabbia dei nazifascisti si rivolse ancora contro la casa colonica vicina abitata dalla famiglia Foletti. Qui uccisero ancora quattro uomini e un garzone; per ultimo il più anziano di loro, ormai novantenne, uscito gridando dalla casa incendiata, fu infilzato con un forcale da lavoro e gettato tra le fiamme ardenti.

La strage destò grande impressione nel paese, pesando a lungo l’incertezza se si fosse trattato di un’azione premeditata, oppure di una rappresaglia realmente conseguente alla prima sparatoria.


Il monumento “Omaggio alla resistenza” realizzato da Giò Pomodoro nel 1980 dedicato alla strage di Ponte degli Allocchi, Istituto storico di Ravenna

Rappresaglia fascista del Ponte degli Allocchi

Fu una rappresaglia decisa interamente dai vertici del Fascio repubblicano di Ravenna quella che vide l’uccisione intimidatoria di dodici ostaggi per vendicare la morte di un brigatista nero per mano di un gappista pochi giorni prima. Nel corso dell’estate 1944, con il fronte ancora fermo nelle Marche, la lotta partigiana non aveva ancora un progetto di scontro aperto e di insurrezione contro le forze nazifasciste: si limitava agli atti di sabotaggio ed a colpire le personalità più in vista del regime.

In seguito ad una lunga sequenza di attentati, e relative rappresaglie, il Gap volante del giovane partigiano Umberto Ricci, detto Napoleone si mise sulle tracce del noto brigatista Leonida Bedeschi che puntualmente passava ogni giorno su un ponte ai margini della città. Una staffetta partigiana avrebbe dovuto solo indicarglielo, nel pomeriggio del 18 agosto, poiché Napoleone non conosceva di persona Bedeschi.

Ma quando il brigatista, soprannominato “Cativeria” dai suoi stessi camerati per la brutalità con cui interrogava i prigionieri, passò vicino ai due gappisti, Napoleone estrasse la sua pistola ed uccise sul posto il Bedeschi. Poi, mentre fuggiva in bicicletta, fu però intercettato a poca distanza da una automobile con alcuni soldati tedeschi a bordo che, immaginato l’accaduto, lo arrestarono e lo consegnarono ai militi della Brigata Nera. Per alcuni giorni Ricci fu sottoposto a severi interrogatori e varie sevizie per fargli rivelare i nomi degli altri gappisti, che non furono però mai confessati.

Ritenendo allora che non bastasse la condanna esemplare di Napoleone per intimidire una città ritenuta ostile il comandante della Brigata Nera Giacomo Andreani, insieme al Capo della Provincia Emilio Grazioli, al Questore Neri e al Segretario federale Pietro Montanari, decisero di attuare una vasta rappresaglia, arrestando in pochi giorni, e condannando a morte senza alcun processo, altre undici persone, ritenute sovversive e pericolosi soggetti antinazionali. Tra queste in primo piano una giovane operaia dell’azienda Callegari, Natalina Vacchi, che si era molto esposta a capo di recenti scioperi nella sua fabbrica. Furono poi arrestati tre addetti alla tipografia clandestina di Conselice, un professore cattolico aderente al Partito d’Azione, un responsabile della rete comunista ed altri giovani singolarmente conosciuti per le loro idee antifasciste.

All’alba del giorno 25 agosto furono portati tutti sullo stesso ponte ove era stato ucciso Cativeria e fucilati contro il muro di una casetta in dieci; Natalina Vacchi e Umberto Ricci furono impiccati per ultimi a due pali del telegrafo piantati per l’occasione.

I corpi delle vittime rimasero esposti per tutta la giornata e fu impedito ai famigliari di avvicinarsi. Tra di loro figuravano però i nomi di alcune personalità molto note in città che godevano di grande stima, motivo per cui a giustificare la rappresaglia che aveva destato notevole indignazione in Ravenna i fascisti pubblicarono qualche giorno dopo un manifesto dal titolo “Legittima difesa” nel quale screditavano i condannati e presentavano la loro fine come un atto dovuto da parte dell’autorità fascista.

Umberto Ricci, nei giorni della sua detenzione, era riuscito a scrivere due toccanti lettere alla madre, fatte uscire clandestinamente dal carcere e pubblicate da Einaudi diversi anni dopo fra le “Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana” a cura di Giovanni Pirelli.


Il Sacrario dedicato alle vittime di Madonna dell’Albero, Istituto storico di Ravenna

La Strage nazista di Madonna dell’Albero

Dopo che gli Alleati ebbero superato il fiume Savio il 1° novembre 1944 i tedeschi iniziarono a sviluppare un’ampia striscia di difese naturali a sud e a ovest di Ravenna per mantenere il controllo di quei territori più a lungo possibile.

Rotti gli argini interni dei Fiumi Uniti furono così allagati tutti gli spazi tra i due fiumi in prossimità della confluenza, così da creare un ampio scudo difensivo a protezione della città.

Il grosso delle truppe tedesche aveva già iniziato il ripiegamento sulle rive del Lamone, mentre sui Fiumi Uniti era rimasta solo una modesta retroguardia del 721° Reggimento della 114° Jӓger Division.

Il 27 novembre intorno alle ore 11 nella borgata di Madonna dell’Albero, 6 km a sud di Ravenna, presso Classe, ci fu uno scontro fra alcuni tedeschi e un gruppo in avanscoperta di canadesi e partigiani avanzati per bonificare quella che oramai era una terra di nessuno.

Nella sparatoria vi fu solo una vittima fra i tedeschi, mentre gli esploratori si ritirarono indenni. Poco dopo però, verso le ore 12, alcuni soldati tedeschi riapparvero minacciosi fra le case degli abitanti cercando i partigiani e intimando ai civili rimasti nelle poche case di Via Nuova di concentrarsi all’interno di un capanno di canne, ove furono sterminati da una raffica di mitragliatrice esterna che ne falciò subito 16. Lungo la stessa strada furono poi massacrate altre 40 persone, in gruppi di 10, 19, poi altri 10 e uno da solo, aggregati per nuclei famigliari o conviventi casa per casa, senza che si diffondesse la notizia nei dintorni. I corpi delle vittime furono sepolti rapidamente dai tedeschi sotto poca terra e tanto letame, in modo che il silenzio più totale calasse presto su quella borgata di duecento abitanti. Ci fu un solo superstite, miracolosamente salvatosi nel capanno di canne dei Corbari, all’interno di una botte interrata e subito ricoperta dai corpi delle vittime. Egli rimase nascosto fino a sera per attendere che nessun tedesco fosse più in zona, poi cercò riparo nottetempo in direzione delle zone sud occupate dagli Alleati. Ci vollero alcuni giorni per avere notizia a Ravenna della strage e della sua reale entità, poiché i macabri rinvenimenti dei corpi falcidiati e le sommarie sepolture di gruppo vennero scoperte gradualmente. In tutto si trattò di 56 vittime, di cui 16 bambini, 8 anziani, 17 donne e 15 uomini. Tutto il massacro di inermi fu consumato in tempi molto brevi e, a differenza di altre rappresaglie tedesche, che avevano anche uno scopo deterrente verso la popolazione con l’esibizione pubblica delle vittime, qui l’azione rispondeva invece a necessità funzionali e strategiche dell’esercito tedesco di sgombrare il campo da ogni possibile presenza di civili. Una volta soppressa tutta la popolazione locale, qualsiasi nuova presenza sul posto sarebbe stata subito scoperta e neutralizzata, rendendo più sicuro il territorio e l’ultimo presidio tedesco.

Nel descrivere l’evento sul loro rapporto i tedeschi della 114º Jӓger  Division spiegarono così l’accaduto: “L’avanguardia dell’attacco nemico è stata respinta, così come i banditi che si sono trovati a loro volta respinti. Durante l’inseguimento e il rastrellamento seguiti all’attacco alla ricerca dei covi dei banditi 56 partigiani che facevano resistenza sono stati fucilati”.


Cartolina storica di Basilica di Sant’Apollinare in Classe

Salvataggio della Basilica di Classe

Negli ultimi giorni di ottobre, poco dopo la liberazione di Cervia da parte dell’VIII Armata britannica, con l’aiuto dei partigiani raccolti in quella zona, gli Alleati giunsero alle rive del fiume Savio. La loro avanzata, nonostante la superiorità di uomini e mezzi, fu molto lenta: la pianura era piena di insidie (canali, fossi, siepi e frutteti, oltre agli alti argini del fiume Savio). Le condizioni meteo furono però subito pessime, l’usura degli uomini pesante, specie nel I Corpo canadese, in linea da molti mesi.

In questa situazione così difficile, il Comando dell’VIII Armata decise di fare leva su due elementi.

Il primo fu quello di dispiegare due “forze speciali” dotate di grande mobilità e adatte ad un tipo di scontro piuttosto irregolare, molto diverso da una classica e massiccia avanzata frontale: a ovest della statale Adriatica n.16 la cosiddetta “Porterforce” centrata sul 27° Lancieri britannici, dotata di autoblindo con cui poteva svolgere agilmente perlustrazioni e veloci incursioni tra i presidi tedeschi; a est fino al mare il N°1 Demolition Squadron, meglio noto come Popski Private Army (PPA), un reparto di un centinaio di uomini dotati di mezzi anfibi e di Jeep potentemente equipaggiate, che operava a est della strada, fino al mare.

Decisero inoltre di non smobilitare e disarmare i partigiani locali con cui nel frattempo erano entrati in contatto, ma di re-inquadrarli e coordinarli per farli combattere ancora, insieme e agli ordini di queste due forze speciali.

Il Distaccamento partigiano “Settimio Garavini” fu pertanto riorganizzato in due distinte formazioni dirette, con percorsi diversi, in direzione Ravenna sud.

Il reparto che dipendeva dal PPA operava in un territorio composto in buona parte da pinete, paludi e campagne allagate. Le azioni erano di perlustrazioni, veloci attacchi, conquista progressiva dei singoli presidi tedeschi. È di quel periodo, precisamente il 19 novembre, la conquista della frazione di Classe, e quindi anche il salvataggio della maestosa basilica, oggi Patrimonio UNESCO fra i più visitati d’Italia. In verità l’abitato di Classe era importante anche per l’esistenza in prossimità di un grande zuccherificio e come tale era identificato dai britannici tra gli obiettivi strategici e pericolosi. Sia la ciminiera della fabbrica che il campanile della basilica erano perciò in imminente pericolo di distruzione da parte alleata, in quanto ottimi punti di osservazione per le artiglierie tedesche.

L’azione che portò ad occupare Classe, e a risparmiarla dal previsto cannoneggiamento, fu condotta in modo coordinato tra Alleati e partigiani: una squadra di questi ultimi avanzò da sud lungo la ferrovia, mentre veniva coperta dalle autoblindo della Porterforce sulla Statale Adriatica, e dalle mitragliatrici del PPA nella pineta. Su chi convinse il Comando alleato a scegliere un più rischioso attacco a terra invece che un più sicuro bombardamento si discusse molto, nel dopoguerra, con sostituzione di lapidi celebrative e memorie locali che si contendevano il merito del salvataggio. Ma ormai la basilica era salva.

L’operazione degli incursori fu quasi indolore e si concluse con l’arresto del presidio tedesco, ma riuscì ad evitare il consueto ricorso all’artiglieria alleata, salvando così molte vite umane e un inestimabile tesoro di arte paleocristiana e di storia bizantina.


Genieri del genio britannico bonificano il terreno dalle mine nemiche mentre degli esploratori italiani dietro di loro stendono i tubi di un oleodotto, IWM London (NA20447)

La liberazione di Faenza

Dopo l’ingresso degli Alleati a Forlì il 9 novembre 1944, il V Corpo britannico continuò ad avanzare lungo la via Emilia in direzione di Faenza, ma fu costretto a fermarsi sul Rio Cosina, in quanto i tedeschi presidiavano ancora tutte le colline a sud della strada. Da quelle alture, sebbene di poche centinaia di metri, si poteva tenere sotto controllo la via Emilia. Il compito di espellere i tedeschi da quelle posizioni, spettava al II Corpo d’Armata polacco che, partito da Bagno di Romagna stava scendendo lungo le valli del forlivese in direzione della via Emilia tra Forlì e Faenza. Gli scontri tra i polacchi e la 26° Divisione corazzata tedesca iniziarono la notte del 16 novembre intorno alla chiesa di Monte Fortino, conquistata poi persa dagli Alleati. Poi nella notte del 21 novembre i polacchi, dopo un intenso fuoco di preparazione, attaccarono nuovamente costringendo i tedeschi a ritirarsi verso Faenza. Questi, dopo avere distrutto tutti i ponti, si attestarono nelle case affacciate sul fiume che aveva argini molto alti. Il V Corpo britannico riprese l’iniziativa a valle e avanzò entrando nel Borgo Durbecco il 24 novembre fino a raggiungere la riva destra del fiume, alle porte della città. Il comando alleato, ritenendo che fosse estremamente difficile attraversare il Lamone di fronte alla città, con il rischio di dover combattere casa per casa, predispose una manovra per aggirare Faenza da monte. L’attraversamento del fiume dovette quindi avvenire nei pressi di Quartolo, sulla strada per Brisighella, dove gli argini erano più bassi; poi raggiunte le colline, si diressero verso la via Emilia per impedire la ritirata alla 26ª Divisione tedesca. La sera del 3 dicembre la 128ª Brigata della 46ª Divisione britannica attraversò il Lamone e iniziò a salire sulle colline in direzione di Pideura e Pergola incontrando una forte resistenza. Dopo alcuni giorni entrarono in linea anche reparti della 10ª Divisione indiana e l’avanzata degli Alleati proseguì più convinta fin quasi a raggiungere la frazione di Celle. Il Comando della X Armata tedesca si rese conto che la 26ª e la 305ª divisione, ormai esauste, non riuscivano più a contenere la pressione dei reparti alleati e dispose che la 90ª Divisione Granatieri corazzati entrasse in linea a Celle per effettuare un contrattacco e respingere gli alleati oltre le colline. La mattina del 9 dicembre un reggimento della 90ª Divisione, con l’appoggio di alcuni carri armati e attaccò con intensità di fuoco le posizioni alleate. Il contrattacco tedesco non ottenne però gli effetti sperati, furono riconquistate solo poche centinaia di metri di terreno, poi nuovamente perdute, per la tenace resistenza opposta dai reparti alleati, appoggiati anche dalle incessanti azioni dei cacciabombardieri. Alla sera dello stesso giorno gli uomini della 90ª Divisione ritornarono sulle posizioni di partenza. Nel contempo i neozelandesi, dopo avere costruito un altro ponte, si diressero verso Celle e la sera del 15 dicembre i Maori del 28° Battaglione mentre si avvicinavano alla via Emilia, udirono il rumore dei carri tedeschi che si ritiravano da Faenza. Il giorno seguente alcune pattuglie neozelandesi, accompagnate da partigiani locali, attraversarono il Lamone sui rottami del vecchio ponte di ferro ed entrarono in città, mentre da monte entravano i Gurkha della 43ª Brigata. Il 17 dicembre Faenza fu dichiarata ufficialmente libera dalla presenza dei tedeschi.


La Battaglia delle Valli e la liberazione di Ravenna

La svolta fondamentale che portò alla Liberazione di Ravenna il 4 dicembre 1944 – prima della stasi invernale che avrebbe lasciato a lungo la città sulla linea del fronte – avvenne tra il 20 e il 22 novembre precedenti. Arrigo Boldrini, il comandante Bulow, era riuscito fortunosamente a raggiungere la zona liberata, a incontrare il Comando dell’VIII Armata britannica e a concordare un piano per coordinare tutte le azioni militari che avrebbero consentito agli Alleati di avanzare anche dopo il Proclama di Alexander, vincendo le loro titubanze. Il rischio di uno scontro sanguinoso e frontale li avrebbe consigliati di fermarsi quasi alle porte di Ravenna. La garanzia data da Bulow, e accettata del Comando britannico, era che i partigiani di diversi distaccamenti, dislocati nelle paludi e provenienti dall’entroterra (in tutto circa un migliaio di uomini), avrebbero attaccato i tedeschi simultaneamente a nord in più punti, così da costringere il nemico a sguarnire la città e a ripiegare verso ovest.

Le truppe soprattutto canadesi operarono una non facile manovra aggirante da ovest, mentre le unità speciali britanniche avanzarono da sud, superando i Fiumi Uniti che erano stati la linea difensiva tedesca. L’aggiramento da ovest avvenne tra gli ultimi giorni di novembre e i primi di dicembre, con la liberazione di numerosi paesi. I Fiumi Uniti furono passati il 4 dicembre, e partigiani del Distaccamento “Garavini” e gli Alleati entrarono in città nel primo pomeriggio di quel giorno.

Dalla notte precedente invece, nelle paludi e nelle campagne a nord di Ravenna i partigiani attuarono puntualmente il piano concordato, conquistando i presidi tedeschi sotto il fiume Reno tra il mare a Sant’Alberto e attaccarono Porto Corsini. Questa era una località di valore strategico, posta com’era all’entrata del porto e difesa da un sistema di bunker e da campi minati. La sua conquista fu altamente rischiosa anche se le perdite furono assai ridotte. All’alba del 6 dicembre la località era libera. A Sant’Alberto invece i tedeschi resistettero al limitare del paese, furono respinti oltre il ponte Cilla che però non fu fatto saltare, per facilitare l’ormai imminente avanzata alleata in direzione della SS 16. Nella giornata del 5, invece, si dovette constatare che gli Alleati si stavano assestando poco a nord di Ravenna, mancando clamorosamente la possibilità di occupare stabilmente territori già sgombrati dai tedeschi. I quali non esitarono a scatenare un pesante contrattacco, supportato da mezzi corazzati e artiglieria, che mise seriamente in difficoltà l’esile avanguardia partigiana. Di fronte al pericolo di uno sbandamento che avrebbe compromesso l’intera azione, nonostante il ferimento di Bulow che lo mise fuori gioco per alcune ore, i partigiani riuscirono a rispondere con una non scontata disciplina e coesione, limitando le perdite e ripiegando ordinatamente dietro le linee britanniche. Resta il fatto che le zone liberate e poi abbandonate vennero riprese stabilmente dagli alleati un mese dopo ad un prezzo ben maggiore.

Le narrazioni succedutesi nel dopoguerra, nel clima della “guerra fredda”, hanno talvolta spiegato in vario modo un’operazione che colse il risultato principale, la liberazione di Ravenna, e costituì un caso prezioso e non usuale di piena e positiva collaborazione tra partigiani e forze alleate.


Monumento in ricordo dell’attraversamento del fiume Senio ad opera delle forze alleate e partigiane situato sull’argine destro tra Rossetta e Fusignano, Istituto storico di Ravenna

La Battaglia del Senio

Dopo i mesi della sosta invernale le armate alleate ferme sulla Linea Gotica erano ora pronte ad un attacco decisivo nella primavera 1945 per dilagare nella Pianura Padana. All’VIII Armata britannica fu affidato il compito di aprire in Romagna un varco nel settore del fronte più avanzato, per utilizzare il percorso della Via Emilia e della Statale 253 in direzione Bologna.

Dopo accurati preparativi a beneficio delle fanterie e delle artiglierie, nei primi giorni di quell’aprile si poteva disporre anche dell’aviazione statunitense della 15° Air Force per sconfiggere definitivamente le due armate tedesche a sud del Po.

L’iniziale manovra diversiva che doveva attirare le riserve tedesche sul versante adriatico prese avvio dalle rive del fiume Senio, che per tutto l’inverno aveva funzionato da cerniera e linea difensiva per i tedeschi fra la collina appenninica e le Valli di Comacchio.

Il primo attacco per superare il Senio e il Santerno iniziò nel punto più ravvicinato dei due fiumi e cioè davanti a Lugo e Cotignola alle ore 13,50 del 9 aprile con il sorvolo e il bombardamento di 470 caccia e di 550 bombardieri, che per alcune ore martellarono accanitamente tutte le postazioni tedesche. Poi seguì l’azione di 1.500 pezzi di artiglieria che spararono 250.000 colpi su un breve tratto del fronte nella frazione di San Potito. Era già calato il buio della sera quando alcune avanguardie dell’8° Divisione indiana varcarono il fiume e si avvicinarono a Lugo, che avrebbero liberato la mattina successiva. Più a nord-est il fronte era stato affidato fin da gennaio al Gruppo di Combattimento “Cremona”, uno dei quattro corpi del nuovo Esercito italiano che per la prima volta assumevano un incarico di grande importanza in prima linea di fronte al nemico occupante i paesi di Fusignano e Alfonsine.

A sud invece combatteva la 78° Divisione britannica, alla sua sinistra la 2° Divisione neozelandese e più giù ancora, sulla via Emilia, il II Corpo polacco e la 43°Brigata Gurkha. Cosicché ogni località lungo il corso del Senio ha conosciuto liberatori diversi e conservato memorie diverse di quei giorni. Il fatto più nuovo fra questo mosaico di eserciti era sicuramente l’impiego per la prima volta di soldati italiani: il GdC “Cremona” per di più era formato per metà da volontari ex partigiani provenienti dalla Toscana e dall’Umbria, una volta che queste regioni erano state liberate nell’estate precedente.

Così come sull’alto corso del Senio, a Riolo dei Bagni e Borgo Tossignano combatterono i bersaglieri del Gruppo “Friuli” pagando con numerose perdite i durissimi scontri avuti il 10 e 11 aprile.

All’alba del giorno 10 i fanti del Gruppo “Cremona” benché privi di mezzi corazzati e di artiglieria pesante avviavano una manovra avvolgente, che evitando lo scontro frontale lungo la Statale Adriatica, liberava i centri di Fusignano e di Alfonsine, proseguendo poi l’inseguimento del nemico per qualche kilometro. Quest’ultima località, posta a cavallo del fiume, aveva subito fin dal dicembre ’44 pesanti bombardamenti alleati e frequenti sabotaggi tedeschi. L’originario centro del paese posto alla destra del Senio riportò un tale livello di distruzioni che l’anno successivo avviò la propria ricostruzione trasferendo l’abitato alla sinistra del fiume.

Nel complesso l’attacco di quei giorni fu l’ultima grande battaglia campale che costrinse l’esercito tedesco a continui ripiegamenti fino alla resa finale.

Per saperne di più vista il sito del Museo del Senio


Monumento a ricordo della missione partigiana presso gli Alleati per salvare Cervia dalla distruzione, https://www.pietredellamemoria.it/pietre/cippo-ai-partigiani-cervesi-tagliata-di-cervia/

La liberazione di Cervia

Sul finire di agosto, quando iniziò l’attacco alleato alla Linea Gotica, diversi bombardamenti si riversarono sulla città di Cervia spaventando molti abitanti che cercarono riparo in zone limitrofe più tranquille come le saline, la pineta e i rifugi di campagna, lontano però dal fiume Savio, oggetto di ripetuti attacchi aerei.

L’avanzata alleata procedette lungo tutto il mese di settembre, mentre i tedeschi ammassavano truppe nelle abitazioni turistiche, requisivano la zona in prossimità della spiaggia allontanando gli abitanti, poi distruggevano ponti, i moli del porto e le centrali elettriche per lasciare terra bruciata al momento della loro ritirata.

La città di Cervia, circondata dalle acque costiere e dalle saline, con le case dei salinari disposte tutt’intorno come una cinta muraria, appariva agli occhi degli Alleati come un caposaldo difficile da espugnare.

Per questo motivo il I Corpo d’Armata canadese fermatosi nei pressi della vicina Cesenatico anche per l’aggravarsi delle condizioni atmosferiche, si apprestava ad un massiccio bombardamento che avrebbe distrutto gran parte dell’abitato.

Furono alcune coraggiose staffette, la sera del 21 ottobre ’44, ad aggirare i presidi e i campi minati dai tedeschi, per dirigersi verso sud, e andare incontro ai canadesi, chiedendo armi adeguate per i partigiani locali. Una volta ben equipaggiati questi ultimi avrebbero potuto attaccare i tedeschi nelle postazioni mimetizzate in pineta, sorprendendoli alle spalle.

La missione ebbe buon esito: i bombardieri rientrarono e le staffette tornate in città guidarono poi i partigiani fino a Tagliata all’incontro con gli Alleati, dove ricevettero nuove armi e bombe a mano con cui spingere i tedeschi ad abbandonare le loro postazioni ed a ripiegare a nord della città.

Così, con scontri minimi, la città fu liberata nel primo mattino di domenica 22 ottobre, quando potè festeggiare l’ingresso congiunto sulla piazza di Alleati e partigiani.

Tuttavia la ritirata dei tedeschi non fu indolore. Come atto di pura rappresaglia, oltre ai navigli nel porto canale, minarono e fecero saltare anche le due antiche porte d’ingresso ai due lati della città. Poi si rifugiarono all’interno delle colonie di Milano Marittima e lasciarono cecchini e mine ovunque, per rallentare l’avanzata alleata.

Per pura e rabbiosa reazione durante il loro ripiegamento spararono raffiche di mitra a caso contro civili inermi, per lo più giovani donne, operai e bambini lungo le strade di campagna, uccidendo una dozzina di persone, tra Cervia e dintorni.

Per rispondere ai cecchini nemici i canadesi ricorsero a cannoneggiamenti dai carri armati che, oltre a nuove distruzioni, produssero anche altre vittime civili nei giorni immediatamente successivi alla liberazione.

Ai primi di novembre si ebbe nella pineta di Cervia un primo proficuo incontro tra il Distaccamento partigiano “Garavini” della 28a Brigata GAP Garibaldi e alcuni reparti speciali dell’esercito alleato come la P.P.A. che insieme avrebbe conseguito ottimi risultati sul campo.

Più problematico invece fu nell’estate del 1945 l’arrivo a Cervia dei soldati polacchi della II Divisione Kressowa, distintisi per i frequenti episodi di violenza nei confronti della popolazione locale, culminati la notte di Capodanno, quando un soldato polacco lanciò una bomba all’interno del Teatro comunale provocando la morte di 3 giovani e il ferimento di altre diciotto.