Scoperta dell’infermeria partigiana
La battaglia della Bolognina
Eccidi di San Ruffillo
Nell’ultima fase della guerra a Bologna la repressione tedesca nei confronti dei partigiani è caratterizzata da una violenza volutamente occultata e attuata verso prigionieri inermi. Si tratta di partigiani prelevati dal carcere giudiziario di San Giovanni in Monte, dove si trovano perché arrestati o rastrellati. Provengono sia dalle brigate cittadine che dalle formazioni della provincia, fra cui Malalbergo, Anzola, Sala Bolognese, Imola. L’Aussenkommando Sipo-SD (il comando delle forze della polizia di sicurezza e del servizio di sicurezza SS) di Bologna compie ripetuti eccidi tra febbraio, marzo, aprile 1945 nei pressi della stazione di San Ruffillo. In totale a San Ruffillo i nazisti compiono sei fucilazioni di massa: la prima il 10 febbraio 1945, poi il 20 febbraio, il 1°, il 2, il 16 e il 21 marzo 1945. Le esecuzioni di massa sono compiute in luoghi periferici della città.
Quella del 10 febbraio, è una delle maggiori stragi di detenuti politici fra quelle avvenute durante l'intero periodo di occupazione tedesca in Italia. L’ultimo episodio il 17 aprile del 1945, quando i tedeschi prelevano 39 detenuti che non risultano tra i deportati, né tra gli avviati a lavori di fortificazioni, né tra i sopravvissuti alla guerra dal carcere. Le 39 persone vengono uccise probabilmente in una località vicino a San Ruffillo sempre lungo il tracciato della linea ferroviaria. Sono tutti uccisi con modalità analoghe e cioè in un luogo isolato e dove fosse possibile occultare i loro corpi. Le fucilazioni del 1945 rispondono ad una logica eliminazionista dove perdono la vita almeno 191 vittime identificate, in un momento in cui le truppe tedesche si preparano a lasciare la città e vogliono sbarazzarsi del più alto numero possibile di prigionieri, ebrei e avversari politici ancora nelle loro mani attraverso un sistematico svuotamento del carcere di San Giovanni in Monte. Un’operazione feroce e sanguinosa condotta nell’assoluta riservatezza e senza suscitare reazioni. I corpi vengono gettati nei crateri prodotti dai bombardamenti alleati lungo i binari della stazione di San Ruffillo. L’opinione pubblica bolognese realizza solo dopo la liberazione di questi episodi di violenza. Il 25 settembre 1967, in memoria delle vittime degli eccidi, è stato realizzato un monumento che si trova oggi in piazza dei Caduti di San Ruffillo.
La manifestazione del sale
I Gruppi di Difesa della Donna (GDD) nascono a Milano nel novembre del 1943 dall’iniziativa di un gruppo di donne esponenti del CLN e hanno come obbiettivo il coinvolgimento di un numero sempre maggiore di donne nella lotta di liberazione. I GDD, a Bologna, diventano operativi dal febbraio 1944 anche se solo in ottobre sono riconosciuti ufficialmente dal CLN cittadino. Dal marzo 1944 al marzo 1945, i GDD organizzano numerose manifestazioni collettive in città e nel territorio. Molto significative diventano quelle della vigilia della liberazione, proprio perché danno la misura raggiunta dalla partecipazione delle donne dopo un inverno duro e pieno di violenze da parte dei nazifascisti. Il nemico è alle corde, ma aumenta il rischio di soffiate sollecitate dai bandi tedeschi ricchi di promesse di denaro e sale in cambio della denuncia di nomi e recapiti dei partigiani. Il sale è un bene molto prezioso e il 3 marzo 1945 si svolge in città una manifestazione, organizzata dal gruppo dirigente dei GDD cittadini, passata alla storia proprio come “manifestazione del sale”.
Le attiviste si impegnano a mobilitare il maggior numero di donne, ognuna di loro infatti ha il compito di parlare con almeno 3 o 4 conoscenti così la rete dei contatti e delle partecipanti assume una dimensione enorme. A tal punto che per paura di essere scoperte si decide di anticipare la manifestazione programmata inizialmente per l’8, al 3 marzo.
Alle 8,30 le donne arrivano in Comune e dopo aver incontrato il podestà formano un corteo diretto alla Manifattura tabacchi in via Azzo Gardino. “Danno il sale alla Manifattura Tabacchi”, così dicono le organizzatrici (Diana Franceschi "Anna", Celestina Galletti "Luisa", Vittoria Guadagnini "Dina", Maria Mantovani "Paola", Vittorina Tarozzi "Gianna", Penelope Veronesi "Lucia") alla gente che incontrano e il corteo sfila verso la Prefettura sempre più numeroso. Le donne chiedono una distribuzione supplementare di pane, carni, grassi e zucchero. L’organizzazione prevede che le operaie della manifattura sospendano il lavoro e vadano in massa verso la “salara”, toponimo di un edificio in via Don Minzoni, utilizzato per il deposito e la vendita del sale. A questo punto però le Brigate Nere e tedeschi circondano il corteo e puntano i mitra. Diverse donne scappano e restano solo le organizzatrici messe al muro accanto all’entrata principale della Manifattura. Tre donne vengono arrestate e liberate il giorno dopo.
Le altre sono trattenute fino all’ordine di rilascio da parte del podestà. Poco dopo arriva la notizia che alcuni vagoni di viveri destinati al fronte sono trattenuti a Bologna per una distribuzione straordinaria. È la prova concreta del successo dell’iniziativa. Un’altra manifestazione guidata da donne si tiene il 26 marzo per onorare, con un funerale vietato dalla autorità cittadine, due partigiani i cui corpi sono abbandonati in via de’ Falegnami. L’ultimo grande corteo sfila il 16 aprile a cinque giorni dalla liberazione per preparare il terreno alla possibilità di una prossima battaglia per l’insurrezione generale.
Gli attacchi partigiani all’hotel Baglioni e la battaglia dell’Università
L’iniziativa partigiana assume un particolare significato politico militare nell’idea sempre più concreta di un’insurrezione popolare soprattutto dopo l’avvio dell’offensiva alleata contro l’ultimo sbarramento tedesco in appenino nel settembre del 1944. Gli scontri con i nazifascisti aumentano su tutto il territorio provinciale nonostante il duro colpo inferto alla Resistenza con la fucilazione dei dirigenti bolognesi del Partito d’Azione, tra i quali il comandante delle brigate GL in regione Massenzio Masia il 23 settembre 1944. Pochi giorni dopo, il 29 settembre, sei gappisti della squadra “Temporale” della 7 Gap attuano il primo dei due spettacolari attacchi all’hotel Baglioni (oggi hotel Majestic) in via Indipendenza 8, sede del primo comando nazista in città, in seguito usato come luogo di rappresentanza e ritrovo mondano per gerarchi fascisti e ufficiali tedeschi.
In questo primo tentativo però qualcosa va storto.
I due gappisti Vincenzo Toffano “Terremoto” ed Evaristo Ferretti “Remor”, arrivati all’ingresso in divisa tedesca, eliminano le guardie e permettono agli altri di piazzare una cassa di tritolo all’interno. Poi, cosparse le scale di benzina, sparano raffiche nella sala dove è in corso una festa in onore del maresciallo Christian Knorr uno dei liberatori di Mussolini al Gran Sasso.
I tedeschi non hanno il tempo di reagire e i partigiani risalgono in macchina verso via Indipendenza in attesa dell’esplosione che però non avviene. Ritornare sul luogo per accendere la miccia è una follia, ma appena tornati alla base già progettano un nuovo attacco per la notte del 18 ottobre. Attorno all’una sei gappisti (Nazzareno Gentilucci “Nerone”, Dante Palchetti “Lampo”, Dante Drusiani “Tempesta”, di nuovo “Terremoto”, “Renor”e Golfiero Magli “Maio”) in divisa fascista e tedesca a bordo di un’auto militare scendono da via d’Azeglio verso l’ingresso del Baglioni dove posizionano una cassa con trenta chili di tritolo. I danni sono enormi: la parte centrale dell’edificio crolla trasformandosi in una trappola mortale per molti tedeschi. Sul Resto del Carlino però solo poche righe e non si accenna a vittime. L’impatto psicologico per i nazifascisti è importante perché le due azioni al Baglioni sfidano il potere dell’occupante nel cuore di Bologna. Due giorni dopo l’azione del Baglioni, nel pomeriggio del 20 ottobre, la base partigiana dell’Università viene investita da formazioni fasciste in assetto da guerra. Circa 200 militi della Guardia Nazionale Repubblicana accerchiano la sede centrale dell’Ateneo e fanno irruzione nell’Istituto di Geografia base operativa segreta della formazione GL in città. Quel pomeriggio, all’interno, ci sono solo 6 partigiani (Mario Bastia “Marroni”, Ezio Giaccone, Stelio Ronzani, Tonino Prasutti, Antonio Scaravilli e i fratelli Leo e Luciano Pizzigotti.
I fascisti iniziano a sparare colpi di mitragliatrice e i partigiani tentano di uscire dall’area assediata attraverso un cunicolo guidati da Bastia, ma solo Prasutti riesce a seguirlo. A quel punto Bastia torna disperatamente indietro per non lasciare i compagni in balia del fuoco nemico. La battaglia impari non dura molto, tre partigiani restano feriti e gli altri finite le munizioni non sfuggono alla cattura e all’esecuzione nel cortile del rettorato. Il Carlino scriverà “sei terroristi giustiziati”. Lo scontro dell’Università è il preludio delle battaglie di novembre in una Bologna divenuta città frontiera a causa dell’interruzione dell’offensiva alleata e la mancata liberazione.
La Camera Confederale del Lavoro di Bologna
Contadini e operai svolgono un ruolo centrale nella Resistenza: sia nella lotta armata tra le fila delle brigate partigiane sia con gli scioperi e le azioni di sabotaggio contro possidenti terrieri e industria bellica. Nel bolognese, già nella prima metà del 1944 si segnalano diverse agitazioni, su tutte lo sciopero generale indetto il 1° marzo 1944 che blocca le fabbriche cittadine e gli scioperi di braccianti e mondine del giugno 1944 nelle zone di Medicina, Molinella, Galliera, Baricella, S. Pietro in Casale, Budrio, Malalbergo e S. Giovanni in Persiceto. A caratterizzare i primi mesi del 1944 sono azioni condotte – sulla falsariga dell’epoca prefascista – da organismi di categoria come i “Comitati di agitazione sindacale di fabbrica” e i “Comitati di Difesa dei Contadini”. Agitazioni che, nel contesto bellico, non si caratterizzano, esclusivamente, per le rivendicazioni salariali ma assumono connotazione politica: indeboliscono l’autorità fascista e colpiscono la produzione bellica. Mentre, quindi, nel bolognese le azioni di contadini e operai sabotano la guerra nazifascista, a livello nazionale avviene una svolta che non ha precedenti nella storia sindacale italiana. Nello stesso periodo in cui le organizzazioni locali organizzano scioperi e sabotaggi, infatti, nella Roma ormai prossima alla Liberazione, il 3 giugno 1944 il socialista Emilio Canevari, il comunista Giuseppe Di Vittorio e il democristiano Achille Grandi sottoscrivono la “Dichiarazione sulla realizzazione dell’unità sindacale”: con il cosiddetto “Patto di Roma” viene istituita Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL). Dopo quasi vent’anni non solo rinasce il sindacato libero, dopo l’imposto scioglimento delle leggi fascistissime, ma la nuova organizzazione ha, per la prima volta, carattere unitario, superando le divisioni che avevano caratterizzato il periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e i primi anni Venti. Lo spirito sindacale unitario si diffonde a Bologna nel momento più duro della guerra: nell’autunno 1944 il proclama Alexander (13 novembre) trasforma il centro cittadino in una trappola per i partigiani; l’appennino e la pianura sono teatro di rastrellamenti e stragi; nelle campagne continuano le razzie di macchinari, bestiame e prodotti agricoli. Ma, se da un lato, la lotta partigiana più che arrendersi si assesta e si trasforma, dall’altro, per quanto possibile, proseguono riunioni clandestine – anche a carattere sindacale – in abitazioni private e in luoghi non sospettabili, come ex conventi e locali dell’Università. Nel corso di una di queste riunioni segrete, nell’ex convento di Santa Cristina - oggi sede del Dipartimento di arti visive dell’Università di Bologna – tra il 10 e il 13 novembre 1944 rinasce la Camera Confederale del Lavoro di Bologna. Fondata nel 1892, e fortemente contrastata nel periodo liberale, con l’avvento del fascismo vive la sua fase più complessa: la sede viene incendiata il 24 gennaio 1924, fino allo scioglimento imposto nel 1926. All’atto di ri-fondazione viene nominata anche una commissione provvisoria composta, nello spirito unitario, da tre comunisti, tre socialisti, tre democratico cristiani, un repubblicano, un azionista e da Clodoveo Bonazzi, esponente del “sindacalismo” e segretario della CCdL bolognese durante l’ascesa del fascismo.
Eccidio del cavalcavia – Casalecchio di Reno
Nell’autunno del 1944 inizia la fase più difficile per la Resistenza bolognese: con gli Alleati fermi lungo la Gotica, l’azione antipartigiana delle SS e delle varie componenti militari e para-militari della RSI vive la sua stagione più intensa e cruenta. Rastrellamenti e stragi di civili investono sia la zona appenninica (Monte Sole, 29 settembre-5 ottobre 1944), la campagna (Vigorso, 21 ottobre 1944) e la città (Sabbiuno di Paderno, 14 e 23 dicembre 1944). Nei territori immediatamente circostanti la città, i rastrellamenti nel quadrante sud-ovest si intensificano nei primi giorni di ottobre: le zone di Sasso Marconi, Monte San Pietro, Zola Predosa e Casalecchio di Reno vengono travolte dai reparti della 16ª divisione Waffen-SS – la stessa che aveva operato a Monte Sole – che rastrellano partigiani, potenziali collaboratori e semplici civili, con il doppio intento di reprimere l’azione resistenziale e raccogliere manodopera per il lavoro coatto. A segnare quei territori sono due avvenimenti accaduti l’8 ottobre. Durante un rastrellamento a Casalecchio due militari della 16ª fermano un autocarro con a bordo partigiani nascosti: nello scontro a fuoco, che si svolge nei pressi del cavalcavia della stazione, perdono la vita due nazisti. Nello stesso giorno, un altro rastrellamento si concentra a Rasiglio, in zona Sasso Marconi, dove si nascondono le basi clandestine della 63ª brigata Garibaldi Bolero: anche in questo caso, i partigiani rispondono al fuoco. Dodici di loro vengono uccisi, altri sono presi prigionieri: quattro italiani (Giacomo Dall’Oca, Ubaldo Musolesi, Gino Zacchini e, il quarto, tutt’oggi sconosciuto), un medico-partigiano di origine costaricana (Collado Martinez) e sei cittadini sovietici che si erano aggregati alla 63ª (Andreevic Marussa Filip, “Miska”, “Vassili” più altri tre tutt’oggi ignoti). Insieme a loro undici, vengono arrestati anche due contadini, Mauro Emeri e Alberto Raimondi, accusati di aver prestato assistenza e rifugio ai partigiani. Reclusi, nell’immediato, in un porcile a Ronca di Monte San Pietro, il 9 ottobre vengono trasferiti presso il Comando delle SS a Calderino. Il giorno seguente, il 10 ottobre, tutti e tredici sono condotti nella piazzetta adiacente al cavalcavia della stazione, lì dove due giorni prima erano caduti i due nazisti della 16ª nello scontro a fuoco coi partigiani. Giunti nella piazzetta vengono legati con del fil di ferro a pali, cancelli e alberi, quindi, giustiziati: i loro corpi restano esposti per alcuni giorni, come monito. Al contadino Raimondi viene appeso al collo un cartello emblematico: “Questa è la fine di ogni partigiano o spia antitedesca”.
Eccidio di Sabbiuno
La mattina del 14 dicembre 1944 alcuni partigiani prelevati dal Carcere di San Giovanni in Monte e presi in consegna da “un comandante delle SS”, percorrono, a piedi o a bordo di camion coperti, le vie del centro di Bologna. Giunti all’altezza di Porta San Mammolo, imboccano la strada che porta alla prima collina bolognese, a sud della città. Passano pochi giorni e la mattina del 23 dicembre la scena si ripete, identica. Una situazione, all’apparenza, piuttosto ordinaria: non è la prima volta, infatti, che prigionieri politici vengono condotti verso la collina o l’appennino per svolgere mansioni di lavoro coatto. Ma nel bolognese nell’autunno-inverno del 1944 di ordinario non c’è più nulla. Il centro cittadino, le cui vie di accesso e fuga sono saldamente delimitate dalla Sperrzone, dopo il proclama Alexander (13 novembre), si trasforma in una trappola per i partigiani: sono vulnerabili e costretti a limitare al minimo l’azione con l’obiettivo di arrivare alla primavera. Fuori le mura la situazione non migliora. Se la zona appenninica è già stata teatro di rastrellamenti e stragi (Marzabotto), anche la pianura finisce nel mirino dell’azione antipartigiana: obiettivo principale delle SS e delle brigate nere è, infatti, individuare basi clandestine. Il 5 e il 7 dicembre, a seguito di una delazione, due grossi rastrellamenti investono, rispettivamente, le zone di Anzola dell’Emilia e Amola di Piano dove ci sono basi della 7ª GAP e della 63ª “Bolero”. Ed è in questi due rastrellamenti che vengono arrestati quei partigiani che le mattine del 14 e del 23 dicembre ricevono l’ordine di rilascio con destinazione cantieri di lavoro della Linea Gotica. L’esito di quelle due giornate è identico, e non conduce al lavoro coatto. Superata Porta San Mammolo e lasciata la città, dopo circa otto chilometri di cammino raggiungono la reale destinazione: Sabbiuno di Paderno, una località collinare semi-disabitata, la cui principale caratteristica geomorfologica è la presenza di alti calanchi che si innalzano su un ripido crinale. Giunti sul posto, vengono allineati lungo il ciglio del crinale e giustiziati. I corpi vengono fatti rotolare a valle e vengono ricoperti dal friabile terreno argilloso. Nessuna pubblicità, nessun comunicato delle SS, se non un generico manifesto a fine dicembre che rimanda a dei giustiziati: di tutto loro non vi è più traccia né notizia fino alla Liberazione, quando tra i compiti principali nelle nuove autorità civili vi è il tentativo di ricostruire quanto accaduto tra l’autunno del 1944 e la primavera del 1945. A inizio agosto, su indicazione del partigiano Bruno Tura – testimone dei fatti del 14 dicembre e sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen - inizia una complessa operazione di esumazione dei cadaveri. Ad oggi il numero parziale riconosciuto è di 58 vittime. Quattro di loro – Adolfo “Moretto” Fantini, Ermes “Aquilone” Fossi, Vincenzo “Terremoto” Toffano e Dante “Tempesta” Drusiani – vengono celebrati con un funerale pubblico a Bologna il pomeriggio del 7 agosto 1945, davanti a una folla di circa 20.000 persone che riempie Piazza Maggiore e le vie del centro.
La missione segreta di Paolo Fabbri
Il 17 dicembre 1944 parte da Bologna una missione segreta della Resistenza, per preparare la Liberazione della città. La missione è formata dal capo partigiano Paolo Fabbri e dallo stratega militare, Mario Guermani. I due partigiani usano i nomi in codice Asinelli e Garisenda.
La missione comincia dalla base partigiana del Fondone. I due partigiani attraversano a piedi il territorio bolognese e quello modenese, accompagnati per alcuni tratti da Alberto Grandi e Adelmo Degli Esposti.
Una volta oltrepassata la Linea Gotica, dopo una breve sosta a Porretta, la missione fa tappa a Firenze. Fabbri e Guermani incontrano il colonnello statunitense Floyd Thomas e ottengono i piani strategici dell’U.S. Army per la Liberazione del territorio emiliano.
Successivamente, i due partigiani scendono a Roma, dove hanno altri incontri. Fabbri e Guermani ricevono dal Ministero della Guerra cinque milioni di lire per finanziare la Resistenza. A Paolo Fabbri è proposto di entrare a far parte del Governo del Regno d’Italia, in qualità di sottosegretario. Fabbri rifiuta, sostenendo che deve fare ritorno a Bologna per portare a termine la Liberazione. Sempre a Roma, Fabbri e Guermani incontrano due figure di spicco del Partito Socialista, il leader nazionale Pietro Nenni e quello emiliano Giuseppe Massarenti.
Napoli è l’ultima tappa del viaggio. Dal 28 al 31 gennaio, la CGIL celebra il suo congresso nazionale di rifondazione. Fabbri è uno dei pochi sindacalisti dal Nord Italia a essere presente, senza figurare formalmente fra i delegati.
Adempiuta la propria missione, Fabbri e Guermani tentano di superare nuovamente la Linea Gotica, per fare ritorno a Bologna. Sono accompagnati dalla guida montana Adelmo Degli Esposti. Hanno con loro i piani strategici degli Alleati per la Liberazione di Bologna e cinque milioni di lire per la Resistenza bolognese. Nella notte di San Valentino del 1945, con ogni probabilità, la missione cade in un agguato. Fabbri e Guermani sono assassinati.
Nel Secondo Dopoguerra, dietro pressione di Nevio Fabbri, presso il Tribunale di Bologna c’è un processo penale per duplice omicidio. L’imputato è Adelmo Degli Esposti, ma nelle carte compare anche il nome di un’altra figura. I Carabinieri che indagano, Antonino Garofalo e Giovanni Chiari, sono stati partigiani sull’Appennino Bolognese. Scrivono diversi rapporti d’indagine e contribuiscono al ritrovamento dei cadaveri, presso la località Ronco Vecchio di Pietracolora.
Nel corso del processo, sono ascoltati numerosi testimoni, fra i quali i partigiani Gianguido Borghese, Ferdinando Baroncini, Vero Del Carpio ed Eros Basile. Il giudice dispone delle autopsie dei cadaveri, alcune perizie medico-legali e delle simulazioni balistiche per ricostruire l’accaduto. Il processo si conclude con una sentenza contraddittoria, che dichiara di non doversi procedere per insufficienza di prove. Il fascicolo del processo è attualmente conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna.
Il servizio d’intelligence italiano e quello statunitense fanno a loro volta delle indagini. I relativi documenti sono conservati presso gli archivi italiani e quelli statunitensi. Il vicesindaco di Bologna, Artemio Pergola, promuove un approfondimento interno al Partito Socialista. Il rapporto conclusivo è conservato presso l’Istituto Storico Parri di Bologna.
All'Ippodromo ci sono le corse domani. La liberazione di Bologna
A Bologna, l’inverno del 1945 è segnato da una dura lotta che, solo tra gennaio e aprile, conta 587 azioni partigiane contro fascisti e tedeschi. La Resistenza vuole conservare l’anonimato, l’efficienza delle basi (mascheramento), allargare la solidarietà sociale e la partecipazione politica in città e provincia. Ilio Barontini (Dario), comandante partigiano alla guida del CUMER (Comando Unico Militare Emilia-Romagna), punta a far assumere alle brigate partigiane un volto pienamente militare e unitario per facilitare, all’arrivo delle truppe alleate, il riconoscimento politico della Resistenza. Da un punto di vista operativo questa volontà si traduce nella formazione della Divisione patriota “Bologna”, da rendere attiva dai primi di aprile del 1945, con a capo ufficiali superiori che già avevano combattuto su vari fronti, pur tenendo inalterata la catena di comando delle nove brigate operanti a Bologna e provincia. I tempi sono dettati dalle notizie che arrivano dagli alleati: Bologna dovrebbe essere liberata per metà aprile.
A portare in città queste importanti informazioni è Sante Vincenzi (Mario) partigiano con il ruolo di ufficiale di collegamento che affronta numerose missioni tra le linee del fronte perché bisogna definire le modalità di azione tra la Resistenza e gli Alleati in vista della liberazione di Bologna.
Le truppe americane, infatti, hanno attaccato le linee tedesche nell’appennino tosco emiliano tra Modena e Bologna, conquistando definitivamente alcuni punti saldi per l’attacco finale alla pianura. In questo contesto, inizia l’elaborazione di un piano d’insurrezione da far scattare nell’imminenza della liberazione con la suddivisione della città in cinque settori dove le formazioni partigiane saranno impegnate in diversi punti strategici.
Il piano, in collegamento con gli Alleati, prevede l’utilizzo di una frase in codice per dare inizio all’insurrezione da inserire nelle trasmissioni radio in lingua italiana della BBC rivolte alla Resistenza con preavviso di 24-48 ore sull’arrivo delle truppe a Bologna. Un foglio con la frase “All’Ippodromo ci sono le corse domani”, da imparare a memoria e comunicare al ritorno a Bologna, viene mostrato a Sante Vincenzi da C. Macintosh comandante del N. 1 Special Force britannico. Il piano però resta sulla carta e non sarà mai attuato.
I tedeschi e i fascisti in gran parte si ritirano tra il 19 e il 21 aprile facendo cadere le ragioni di un’insurrezione partigiana almeno in una logica militare e Sante Vincenzi viene ucciso il 20 aprile a Bologna, insieme a Giuseppe Bentivogli, in circostanze mai del tutto definitivamente chiarite.
Le prime unità alleate entrano a Bologna senza sparare un colpo la mattina di sabato 21 aprile 1945. Sono il 2° corpo polacco dell’8 Armata britannica, i reparti avanzati delle Divisioni USA 91ª e 34ª, avanguardie dei gruppi di combattimento Legnano, Friuli, Folgore e parte della brigata partigiana Maiella.
I partigiani controllano già la Prefettura, la Questura, il Comune e altri importanti punti della città. Le vie e le piazze sono piene di persone che festeggiano e accompagnano i soldati sulle jeep. Sul muro esterno di Piazza del Nettuno molte donne cominciano a mettere fiori e fissare santini con le foto di figli, familiari uccisi e abbandonati in quel luogo di sacrificio oggi conosciuto come sacrario dei partigiani.
Il Comitato di Liberazione Nazionale, per delega del governo, assume tutti i poteri civili.
Di conseguenza si assegnano gli incarichi per la nuova giunta comunale che corrisponde all’intesa tra le componenti bolognesi dell’antifascismo con la nomina a sindaco di Giuseppe Dozza.