La strage di Vecchiazzano
Cesena fu liberata dai partigiani e dalle truppe canadesi dell'VIIIª armata il 20 ottobre. Due giorni dopo, 22 ottobre, alle truppe tedesche fu ordinato di ritirarsi dietro il fiume Ronco e, tre giorni dopo, 25 ottobre, il nuovo schieramento tedesco fu attaccato dalle truppe alleate. Nella zona di Meldola, dieci chilometri da Forlì, la 10ª divisione indiana riuscì a stabilire una testa di ponte nel settore difeso dalla 356ª divisione tedesca, costringendola a ritirarsi dietro al fiume Rabbi. Ed è in questo contesto, che il 27 ottobre, una trentina di soldati della 2ª compagnia dell'870° reggimento della 356ª divisione granatieri, comandati dal sottotenente Alois Brandl e dal sergente Ott, si acquartierò nella casa di Giulio Verità, a Vecchiazzano, a cinque chilometri da Forlì. Il 2 novembre Brandl ordinò alla famiglia Verità di allontanarsi e questa trovò ospitalità nella vicina casa La Merlina abitata dalla famiglia Benedetti. Il 7 novembre le operazioni militari ripresero su tutta l'area del fronte. Verso le ore 11, la casa Verità fu centrata da una bomba e diversi soldati tedeschi rimasero uccisi, sepolti sotto le macerie. Secondo l'inchiesta svolta nel gennaio 1945 dai sergenti Edmondson e Vickers, della 78 sezione del Sib (Squadra investigativa speciale), al tenente Brandl fu ordinato dal comando di battaglione di trasferirsi con i superstiti, circa una ventina, nella vicina casa La Merlina, per stabilirvi il nuovo quartier generale della compagnia. Nella casa erano presenti 15, fra donne e bambini, e nove uomini. A questi ultimi fu ordinato di mettere sacchi di sabbia attorno alla casa. Brandl, secondo quanto da lui raccontato dopo la sua cattura al tenente colonnello W. Heddon del Sib inglese, telefonò al comando del battaglione, comandato dal capitano Köppen, per sapere cosa fare dei civili. Gli fu risposto di far allontanare le donne e i bambini, cosa che egli fece. Gli uomini, invece, per ordine del comando di reggimento, retto dal maggiore Haars, dovevano essere uccisi. Trascinati presso il pozzo a circa 200 metri della casa, un plotone formato, oltre che dal sottotenente Brandl, dai sergenti Ott e Dietrich e da un caporale di nome Maik, li uccise con un colpo di pistola alla nuca e gettò i loro corpi nel pozzo.
Le donne e i bambini, lasciata la casa, l'8 novembre si rifugiarono nell'abitazione di Armando Mengozzi più vicina alle linee inglesi e lì attesero l'arrivo delle truppe liberatrici, che giunsero alle 4 del mattino del 9 novembre. Rientrate a casa, non trovarono gli uomini. Verso le 10 del mattino Elia Verità scorse tracce di sangue e vide che anche l'acqua del pozzo era rossastra. Con l'aiuto di alcuni vicini furono riportati in superfice i corpi di Francesco Benedetti anni 17, Romano Benedetti di anni 21, Leopoldo Benedetti anni 37, Antonio Benedetti anni 46, Giuseppe Benedetti anni 73, Giulio Verità anni 44, Luigi Fregnani anni 75, Pasquale Benedetti anni 43 e Alfredo Lodolini di anni 31. Fin dalle 6,30 del mattino a La Merlina era presente un plotone della compagnia "C" del 6° battaglione del reggimento Lincolnshire della 46ª divisione di fanteria britannica e più volte, soldati e ufficiali si recarono nei pressi del pozzo e fecero intervenire i militari del AFPU (Army Film and Photographic Unit), che fotografarono i corpi recuperati e allineati vicino al pozzo. Per gli inquirenti del Sib quello perpetrato da Brandl e dai suoi uomini fu un orrendo crimine commesso per vendicare i loro commilitoni morti sotto le macerie della casa Verità.
La mancata liberazione partigiana di Forlì
Il 26 settembre del 1944 avvenne il primo incontro tra l’8a brigata Garibaldi Romagna e le truppe alleate presso San Piero in Bagno, paese appenninico che era stato appena liberato dai partigiani. Il comandante della brigata Pietro Tabarri, per facilitare l’avanzata delle truppe alleate, aveva previsto di liberare anche Sarsina e Santa Sofia. Dove, però, i resistenti non erano riusciti ad adattarsi alla nuova situazione strategica, che li vedeva difendere un abitato casa per casa, e vennero respinti dalla pronta reazione nazista. Questo fallimento mise la brigata in grande difficoltà operativa, le proprie forze venivano separate dall’avanzamento della linea del fronte. Inoltre, i tedeschi, per liberare le proprie retrovie attaccarono le zona di Pieve di Rivoschio tentando di accerchiare i partigiani, che però riuscirono a vanificare il piano nazista con un pronto attacco diretto. Per mantenere unita ed efficiente la parte della brigata che si trovava in territorio alleato, venne costituito un comando provvisorio a San Piero in Bagno guidato da Bruno Vailati, conosciuto dagli alleati poiché nell’autunno ‘43 era riuscito a far scappare dal territorio nemico tre ufficiali britannici. Dopo questa missione, il Vailati, venne addestrato dai servizi segreti statunitensi e rimandato nel forlivese per insegnare ai partigiani romagnoli l’arte della guerriglia e l'uso degli esplosivi. Nonostante la sua presenza, gli alleati erano diffidenti nei confronti dell’8a brigata, poiché non la consideravano alla stregua di un esercito regolare e ne avversavano l’indirizzo politico. Di fatto l’ufficiale di collegamento britannico era il bosniaco Monte Radlovic, il quale dopo la guerra paleserà un acceso anticomunismo. Inoltre, l’8a brigata venne affiancata al 2° corpo polacco, molti dei suoi componenti provenivano dai gulag sovietici. Nonostante tali difficili premesse, la brigata forlivese dimostrò di non essere una semplice “banda partigiana”, ma di essere una robusta formazione militare ben addestrata, numericamente rilevante, e composta da uomini che conoscevano perfettamente il territorio, quindi fu inserita nel dispositivo militare alleato e gli venne riconosciuta l’autonomia operativa.
Il 25 ottobre i partigiani liberavano Meldola, a 10 km a sud da Forlì, mentre i britannici non avevano ancora valicato il fiume Ronco: per i resistenti si palesava la possibilità di liberare il capoluogo. Così, la notte del primo novembre, in accordo con gli alleati, i partigiani raggiunsero Bussecchio alla periferia di Forlì, pronti ad attaccare con il supporto dei Gap e delle Sap locali. All’ultimo però, gli alleati bloccarono l'operazione non facendo giungere le munizioni promesse ai resistenti, che si ritrovarono isolati sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca. Gli alleati motivarono la loro decisione con il fatto che non si voleva far rischiare ai partigiani un'impresa così pericolosa a liberazione imminente. Mentre per i partigiani il contrordine fu frutto di una chiara volontà politica, atta a sottrargli l’alto valore simbolico di liberare la “città della giovinezza di Mussolini”. L’amarezza dei partigiani forlivesi fu enorme e alla fine di quel mese un manifesto dell’Anpi di Galeata commentava la liberazione di Forlì, avvenuta il 9 novembre, con queste parole: I partigiani non erano presenti in quella magnifica giornata. I partigiani erano ritornati sui loro monti”.
L’assalto al carcere di Forlì
La mattina del 4 ottobre 1944 si riuniva il comando della 29a brigata Gap di Forlì per organizzare l’evasione di 32 detenuti politici imprigionati nella Rocca di Ravaldino. Il Cumer (Comando Unico Militare Emilia Romagna) aveva informato i gappisti di una serie di stragi commesse dai nazisti nel bolognese e chiedeva di impedirne altre. I Gap (Gruppi Armati Patriottici) erano stati formati dal Partito Comunista nell’aprile del ‘43 per stimolare nel paese la resistenza contro l’occupante. Con azioni come quella avvenuta a Forlì il 10 febbraio del 1944 quando i gappisti uccisero il federale fascista Arturo Capanni, provocando una dura reazione delle autorità: divieto di circolare in bicicletta per la città e dieci antifascisti deferiti al tribunale per essere fucilati. Al divieto e al deferimento gli operai risposero con uno sciopero generale di tre giorni costringendo le autorità a ritirare entrambi i provvedimenti; questa presa di forza fu da stimolo per gli scioperi delle operaie forlivesi del marzo ‘44. L’allargamento del fronte antifascista vide i gappisti forlivesi passare dagli iniziali 13 militanti ai 380 dell’estate ‘44. In quest’ultima fase della guerra la 29a brigata Gap si attivò per impedire la repressione nazifascista, il 2 agosto dieci gappisti irruppero nella rimessa della SITA distruggendo una decina di automezzi che avrebbero dovuto deportare operai e prigionieri politici in Germania. Davanti all'avanzata alleata di quell’estate il Partito comunista formava le Sap (Squadre di Azione Patriottica) per difendere il comparto produttivo del paese, oggetto di devastazioni dai nazifascisti. L'assalto alle carceri di Forlì venne attuato congiuntamente da 9 gappisti e 4 sappisti e fu organizzato grazie alla cartina disegnata da Luciano Lama (capo di Stato Maggiore dei Gap) che era riuscito a visitare il carcere nella mattinata del 4 ottobre grazie a delle conoscenze personali. All’una e trenta il gruppo di assalto si avviava in fila indiana verso il carcere percorrendo in bicicletta via dell’Appennino, in testa vi era Irma Vasumini pronta ad avvisare gli altri di un possibile posto di blocco. Arrivati al carcere due gappisti vestiti da militi e uno in abiti borghesi si presentavano al portone di ingresso, i finti fascisti mostravano un foglio con l’intestazione della questura affermando di aver arrestato un capo partigiano. Le guardie che aprirono il portone vennero prontamente disarmate dai tre che estrassero le rivoltelle e fecero entrare il resto del gruppo in portineria, con Irma Vasumini rimasta in strada a fare da palo. I gappisti utilizzarono lo stesso espediente per accedere all’edificio dei detenuti politici e alla sezione dove si trovavano le celle e lì intimarono al brigadiere di servizio di liberare i 29 prigionieri politici i quali, dopo un iniziale esitazione, scapparono verso l’uscita esultando, mentre altre tre detenute venivano fatte uscire dalla sezione femminile. L’operazione pareva essere filata liscia finchè all’ingresso si presentò una guardia della milizia, che mentre veniva disarmata riconobbe il capo dei sappisti Galio Rossi. Si decise così di rinchiudere il fascista insieme alle altre guardie, minacciandolo di ripercussioni in caso di soffiate. Due giorni dopo la Questura di Forlì diramò un manifesto in cui denunciava alcuni “sconsigliati” di aver provocato “la liberazione di massa” di pericolosi criminali e detenuti politici, che secondo le autorità sarebbero stati scarcerati di lì a poco. Con questo proclama si voleva ridimensionare l’azione gappista e sappista che era riuscita a liberare 32 prigionieri politici senza sparare un colpo e scongiurando una possibile strage.
La liberazione di Forlì
Il 25 agosto del 1944 le truppe alleate sfondano la Linea Gotica, scatta l’operazione Olive che avrebbe dovuto costringere l’esercito tedesco a ritirarsi oltre il fiume Po.
L’operazione non riesce, la linea gotica viene infranta, ma la Romagna non viene liberata.
Gli alleati avanzano lentamente e solo il 25 ottobre giungono lungo la riva orientale del fiume Ronco a cinque chilometri dal centro cittadino. La città è presidiata dalla 278° Divisione tedesca guidata dal generale Hoppe, che ha ricevuto da Hitler l’ordine di
difendere ad oltranza “la città della giovinezza del Duce”. Oltre alla tenace difesa nazista, gli alleati devono fare i conti con il clima inclemente di quelle fredde giornate di ottobre e novembre. Le piogge incessanti ingrossano il fiume Ronco, rendendo impossibile il mantenimento ed il rifornimento di teste di ponte stabili. Vari tentativi in tal senso causano la morte di decine di soldati e la cattura di altri duecentoquarantasei. Solo il 29 ottobre un battaglione indiano riesce a liberare la parte meridionale del fiume nei pressi di Meldola, mentre a nord i britannici valicano stabilmente il Ronco il 3 novembre.
Intanto, l’8a brigata Garibaldi, unitamente alle truppe alleate, discende le montagne e muovono verso Forlì per liberarla. Al momento dell’azione, che secondo gli accordi presi con
gli alleati si sarebbe dovuta svolgere il 2 novembre, i comandi britannici non forniscono le munizioni alle forze partigiane giunte a Bussecchio alla periferia della città e alle quali viene intimato di rientrare a Meldola. Un ordine che mostra una chiara volontà politica atta ad impedire alle forze garibaldine di liberare la città di Mussolini.
Gli alleati si trovano ormai nei pressi dell’aeroporto di Forlì, ma l’incessante pioggia non permette di attaccare il nemico fino a quando, il 7 novembre, il clima si placa e i 120
bombardieri britannici possono prendere il volo e colpire le postazioni avversarie. Il massiccio bombardamento alleato non fa retrocedere i tedeschi, che resistono fino alla sera dell’8 novembre quando Hoppe riceve l’ordine di abbandonare Forlì. Infatti, il servizio spionistico nazista ha ricevuto informazioni su una possibile insurrezione cittadina fomentata e armata dai partigiani locali. Nelle prime ore del 9 novembre, mentre le
forze tedesche si ritirano, dopo aver fatto saltare in aria la torre civica, il campanile del duomo, e le strutture che garantiscono il rifornimento di gas e acqua, i Gap cittadini occupano i più importanti luoghi pubblici ed affiggono per le strade manifesti coi quali informano la cittadinanza che il C.L.N locale ha nominato sindaco Franco Agosto (operaio, comunista e simbolo dell’antifascismo forlivese). Anche gli Alleati entrano a
Forlì, l’accoglienza che ricevono, secondo le fonti, è controversa. Infatti, mentre Antonio Mambelli, cronista forlivese, scrive che l’esultanza cittadinanza è “d’uno spettacolo che solo
Roma aveva offerto” l’agenzia stampa Reuters, invece, commenta “In nessun’altra città d’Italia… vi è stato un benvenuto alle forze di liberazione meno entusiastico di quello di Forlì
(...) Forlì è sempre stato un bastione del fascismo”. I festeggiamenti a Forlì ci sono, ma in maniera contenuta ed i motivi non sono quelli riportati dall’agenzia stampa britannica: la
città era stata evacuata, bombardata da più di un mese dall’artiglieria inglese ed ora è sotto il tiro dei mortai tedeschi che, quella mattina, producono un morto fra i partigiani e vari feriti.
Infatti, il generale Hoppe, la sera del 9 novembre, riceve il contrordine da Hitler di resistere, il Führer è rimasto molto contrariato dal fatto che “la città della giovinezza del
Duce” fosse stata abbandonata così facilmente al nemico. Sempre in quella giornata, intanto, Hoppe prende posizione a nord della città e difende il fiume Montone, come prescritto
dagli ordini ricevuti dal Führer resiste per cinque giorni, per poi ritirarsi imbattuto dal forlivese.